Quando ancora le chitarre erano al centro del villaggio, diciamo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà del decennio successivo, il rock era essenzialmente un affare di elettricità, furia e guizzi ribelli più o meno controllati. A un certo punto, era accaduto che la grande provincia americana, perché è dal grande cuore pulsante del rock che bisogna partire, aveva guadagnato la ribalta, esibendo con fierezza tesori un tempo relegati nei garage, negli scantinati o, comunque, in circuiti ancora limitati. Nel North Carolina, e per la precisione nella zona del cosiddetto Triangle, costituito da Raleigh, Durham e Chapel Hill, diverse formazioni, seguendo l’etica del “fai da te”, avevano cominciato a registrare demo o singoli 7’’, spinti dalla convinzione che il buon vento del grunge e del suo successo lento ma inesorabile prima o poi avrebbe fatto sventolare anche i loro vessilli. Con la scena di Seattle, queste band, tra cui Superchunk, Archers of Loaf, Zen Frisbee, Erectus Monotone, Picasso Trigger e Polvo, c’entravano praticamente nulla, ma era ormai chiaro un po’ a tutti gli addetti ai lavori che il mondo della discografia aveva gettato più di un’occhiata distratta a quell’universo sotterraneo e brulicante di talenti, non certo perché desideroso di far trionfare l’Arte, ovviamente con la A maiuscola, ma innanzitutto, e forse solo, perché aveva intuito che si potevano tirare su soldi a palate anche con dei perfetti sconosciuti, meglio ancora se dotati del giusto talento e di un’adeguata dose di sfacciataggine. Fu così che le stesse riviste musicali presero a sguinzagliare i loro segugi nella zona del Triangle, nel tentativo di capire se una di quelle tre cittadine avesse davvero il potenziale per diventare la “prossima Seattle”.
Col senno di poi, nessuna di quelle band di cui si diceva poc’anzi avrebbe raggiunto il successo e la popolarità di Nirvana, Pearl Jam, Alice In Chains e Soundgarden, giusto per citare i nomi più famosi del grunge, ma con lo stesso senno si può affermare, senza timore di smentita, che alcune di loro raggiunsero vette artistiche di primo piano, a cominciare dai Polvo, i cui primi tre album sono tra le cose migliori di quel periodo, con "Exploded Drawning" a guidare probabilmente il corteo, in virtù di un equilibrio perfetto tra rumorosità, melodia, sperimentazione e compattezza. Proprio a quel doppio disco dell’ormai, ahimè, lontano 1996 saranno dedicate le prossime righe. Mettetevi, dunque, comodi e cominciamo!
A Chapel Hill (sì, proprio la cittadina cui i Sonic Youth, su “Dirty”, dedicheranno un omonimo e bellissimo brano), i chitarristi Dave Brylawski e Ash Bowie erano cresciuti con il pallino di suonare in una band, solo che il primo era venuto su lentamente, immergendosi fin da ragazzo in quell’universo di corde e tasti mentre ascoltava rock classico (“Volevo imitare Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan. A 13-14 anni, volevo suonare il blues. Mi piacevano anche i Rush. E i Black Sabbath”), mentre il secondo solo durante il primo anno di college aveva visto la luce e galeotto fu l’incontro con Brylawski, con il quale condivideva la passione per il catalogo della SST e per i Let’s Active, una band locale che si muoveva tra jangle/power-pop e new wave.
Sotto la guida dell’amico più esperto (che all’epoca aveva un suo spazio alla radio del college), Bowie si lasciò alle spalle i solchi di Rem e U2, prestando orecchio a tanto rock chitarristico dell’ultima decade, con gli Hüsker Dü di “Zen Arcade” a occupare un posto di primo piano nel suo pantheon, in cui avevano uno spazio non proprio piccino anche la Mahavishnu Orchestra e la musica classica indiana, quest’ultima scoperta non soltanto tramite la band del chitarrista John McLaughlin, ma anche grazie a diverse band degli anni Sessanta, con i Beatles in prima linea, ovviamente.
I soldi investiti in quella chitarra elettrica, comprata all’Oxbow Music, lì sulla strada tra Durham e Chapel Hill, quella in cui un tempo c’erano “piccole case e negozi” e che oggi, invece, è solo “una lunga striscia d’asfalto”, non erano insomma stati buttati al vento. Avendo iniziato relativamente in ritardo, l’approccio di Bowie alla sei corde si manterrà sempre più obliquo rispetto a quello di Brylawski. Si rifiutava anche di suonare cover, orgogliosamente difendendo questa sua scelta con l’impellente necessita di trovare subito la propria strada! Così, se un paio di corde si rompevano, non si sentiva obbligato a cambiarle subito, ma anzi provava a suonare senza e per di più volutamente scegliendo di fare a meno dell’accordatura standard. “Ero solito lasciare le corde più allentate, in modo che producessero un suono ronzante, ed è così che tutto è iniziato. A quel tempo, ero molto preso dai My Bloody Valentine e dall'album ‘Isn't Anything’. E nella mia mente, seduto lì nella mia stanza, quelle accordature producevano questo suono drone che mi piaceva molto, e pensavo proprio che suonasse un po' come i My Bloody Valentine. Ovviamente, non era così, ma era quello che desideravo.”
Se la band guidata dal genio dispotico di Kevin Shields è sicuramente sul taccuino di tutti quelli che hanno provato o vorranno provare a ricostruire gli sviluppi del rock chitarristico rumoroso e sperimentale a partire dagli insuperati Sonic Youth, è indubbio che sulla scena del Triangle un impatto considerevole lo ebbero anche i Dinosaur Jr., che con “You're Living All Over Me” (1987) avevano mostrato che la lezione della “gioventù sonica” (“I Sonic Youth ci hanno influenzato sotto molti aspetti - ricorderà Brylawski - grazie a loro, abbiamo imparato, ad esempio, come due chitarre possano riempire gli spazi e interagire”), mediata dall’hardcore già post- degli Hüsker Dü, poteva essere accolta anche senza nascondere l’eventuale passione per il classic-rock degli anni Settanta il che, in soldoni, significava, ad esempio, che gli assoli di chitarra non erano più banditi e che una certa vena psichedelica poteva sempre tornare utile.
Avendo il destino riservato loro un sentiero comune, Brylawski e Bowie chiamarono a raccolta il bassista Steve Popson e il batterista Eddie Watkins, così avviando l’epopea dei Polvo. Quelli che seguirono furono giorni di prove assidue e intense, con lo scopo di perfezionare la loro intesa.
La prima testimonianza del fatto che i due chitarristi fossero ottimi allievi e già finanche originali nel piegare la lezione dei maestri a unire i puntini della propria personalità la si avrà nel 1990, quando per la propria etichetta, la Kitchen Puff Records, vedrà la luce l’Ep "Can I Ride", con brani che parlavano una lingua sporca, dissonante, cacofonica, eppure sempre impregnata di accenti melodici, nonché caratterizzata da un euforico tormento, ora come dei Sonic Youth in rettilineo verso il tramonto (si ascolti la coda di “Tread On Me”), ora, invece, simili a dei Television scentrati, sotto caffeina (prestate orecchio a “Skake Fist Fighter”). Sarà comunque il singolo “Vibracobra”, e siamo nell’indimenticabile 1991, a metterli davvero sulla mappa dell’indie-rock più creativo, dilatando il loro noise-rock sotto l’egida di Moore & Ranaldo, come a dire che questi solchi spesso assomigliano a un sogno abbacinato da torride mareggiate di rumore chitarristico.
La strada era ormai segnata. Se ne accorse anche l’amico di vecchia data Mac McCaughan, che li chiamò a firmare per la sua Merge, di lì a poco spedendoli in studio a registrare l’esordio sulla lunga distanza "Cor-Crane Secret" (1992), su cui tornarono a brillare “Vibracobra” e “Can I Ride”, brani che guidano la marcia verso una forma canzone obliqua, sporca, all’occorrenza sconnessa, eppure sempre meravigliosamente evocativa, con le due chitarre intercambiabili tra ritmica e solista, laddove, invece, il successivo e ancor più convincente "Today’s Active Lifestyles" (1993), prodotto da Bob Weston, irrobustirà il sound, acuminerà gli spigoli e rinsalderà i debiti nei riguardi non soltanto dei maestri del rumore più o meno psichedelico, ma anche dei duelli chitarristici della coppia Cotton/Harkleroad, come dimostra, ad esempio, l’arpeggio di “My Kimono”, che potrebbe essere la loro “Dali’s Car” (da “Trout Mask Replica”), magari riletta alla presenza del fantasma di Tom Verlaine.
Attraverso gli Ep "Celebrate The New Dark Age" (1994) e "This Eclipse" (1995), i Polvo perfezioneranno e, in parte, addomesticheranno il loro sound, fino a farlo divampare nel doppio "Exploded Drawing" (1996), in cui il loro disegno sonoro (impreziosito dal ritorno, in fase di produzione, di Bob Weston) esplode, come da titolo, in più direzioni, mostrando che la band ha nel frattempo non soltanto rinvigorito le proprie inclinazioni e influenze, ma le ha anche trascese con un songwriting più rifinito e un lavoro di studio più consapevole, tanto che, come qualcuno ha suggerito, non è sbagliato dire che "Exploded Drawing" è il loro “White Album”.
L’opener “Fast Canoe” mostra che la band ha fatto sua anche la lezione del post-rock più “matematico”, scolpendo con pazienza un congegno sonoro in cui atonalità, minimalismo, sghembo respiro pop e fiammate post-hardcore vanno di pari passo. La sensazione è quella di essere di fronte a un quantitativo indeterminato di energia razionalmente concentrato in scarsi sette minuti, in cui la “canoa veloce” del titolo è il simbolo dell’aiuto riservato a una persona lontana (una donna?), una che merita “una metafora che potrebbe piacerti”, anche se “non riesco a trovare quella che meriti di sentire”.
Introdotta dal risuonare dronico di gong, “Bridesmaid Blues” ha il piglio di un inno alla libertà (“Vivi la vita al contrario”; “Salta sull'autobus e lascia la fattoria”) e la grinta intellettuale dei Sonic Youth di “Dirty”: le chitarre caricano e scaricano elettrico disincanto, mentre “stelle allineate scoppiano in alto, come una damigella d'onore” e orizzonti lontanissimi si riempiono di stupore, quasi che “Sonderangebot” e “Im Glück” dei Neu! avessero trovato un’intesa più emotiva che razionale.
Su "Feather of Forgiveness", i Polvo suonano invece math-rock utilizzando gli strumenti con furia “industriale”, quella evidentemente più adatta per un brano il cui titolo (che sta per “Piuma del perdono”) è un gioco di parole con “Father Of Forgiveness”, ovvero Dio in quanto “Padre del perdono”.
Quando mi hai chiesto cosa avessi in mente
E hai detto che potevi tenertelo per te
Hai mentito
Perché ho la sensazione che tu non possa
Ti ho detto cose che avrei dovuto tenere dentro
E so che è colpa mia perché ho aperto la cassaforte
Ma non ti penserò mai più allo stesso modo
Voglio coprirti di fiori di perdono
Voglio toccarti con la piuma del perdono
Voglio metterti sotto una luce che ti farà male agli occhi
Voglio coprirti di fiori di perdono
Dopo l’interludio di “Passive Attack” (pensate ai Thinking Fellers Union Local 282 alle prese con la musica giapponese!), “Light Of The Moon” assume le fattezze di una sonnolenta ballata con i Pink Floyd nel cuore, per la precisione quelli di “Saint Tropez”, mentre la gioventù è di nuovo "sonica” in “Crumbling Down” e ci dà dentro in un alternarsi di geometrie nevrotiche (Steve Albini, sei tu?) e distensioni trasognate.
Avendo collezionato molti strumenti a corda dall'Asia, Dave Brylawski si diverte a percuotere un dulcimer all'inizio di “Street Knowledge”, che nel restante minuto e mezzo spinge il rumore verso uno strano incubo surreale, dove la psichedelia e le sue arcane rivelazioni sono giusto dietro l’angolo.
Come faccio a sapere che il destino è lento?
Ero un'ape operaia, ma ora sono un drone.
Il sole splende e i riflessi sono dolci.
Sentiamo le nostre voci trasportate da una brezza di fotoni.
Entrano da un orecchio ed escono dall'altro.
Le voci si trascinano come la coda di una cometa.
Volano nella notte con te sul mio tappeto.
Come la convocazione di una scia di meteoriti.R
Ricorda la città d'estate.
Sai che le strade erano vive.
Con il suono dell'alveare.
Non lo sanno ora, se avessero saputo che quella canzone suona per sempre alla radio
(Conoscenza della strada, conoscenza)
Nelle sue immaginifiche dilatazioni, racchiuse tra le solite esplosioni math-noise, “High-Wire Moves” bussa alla porta della “infinite sadness” degli Smashing Pumpkins, suggerendo che non bisogna “dimenticare mai il modo in cui l'acrobata impara”. Ancora un interludio (il mesto fraseggiare di chitarra, contro un cielo in cui minaccia e mistero sono la stessa cosa, di “Monoloth”), ed ecco “In This Life”, uno dei momenti più orecchiabili del disco, perfetto nella sua cantabilità Nineties declinata in chiave insieme spigolosa e lisergica, a sostegno di un vero e proprio promemoria esistenziale: “Non vergognarti di dipingere un quadro di te stesso/ Non devi farlo sembrare uguale a quello di qualcun altro/ In questa vita, beh, potresti cadere/ In questa vita devi rimetterti in piedi/ E tutto quello che devi fare è valutare la situazione/ Coltivare alleanze, spiegare la situazione/ E questa vita è stata creata per te/ Sembra che tu sappia sempre esattamente cosa fare”.
L’eleganza quasi cameristica di “The Secret’s Secret” tratteggia scenari di frontiere come limiti della psiche e prelude a “Snowstorm In Iowa”, in cui i Polvo immaginano di essere nuovamente alle prese con le registrazioni di “Today's Active Lifestyles”, laddove “The Purple Bear" porta in dote ironia e sarcasmo (c’è questo tizio che suona in una band e che spera invano di vederla in tv, fosse anche a notte fonda!), suonando come un brano di power-pop sgraziatamente psichedelico. A dispetto del suo piglio scanzonato, “Taste Of Your Mind” vanta invece uno dei loro testi più poetici:
Una volta contavamo le stelle di una notte limpida
Poi, i lampioni hanno reso difficile vedere
Dici che c'è magia nelle costellazioni sommerse
Non lo renderai magico per me
Quando stiamo vagando nel caos della città
Guardi solo dritto davanti a te
Voglio fermarmi a scattare una foto dello skyline
Preferiresti bruciarlo, invece
Posso reggere il peso della tua mente?
Posso assaporare la tua mente?
Posso scalare la collina della tua mente?
Posso imparare le vie della tua mente?
Posso comprare il peso della tua mente?
Posso provare un pezzo della tua mente?
Posso vedere la tua mente nella sua interezza?
Posso vedere il buco nella tua mente?
Cerco di capire che il vuoto è una benedizione
Anche se non sembra esserlo
Dopo i due minuti scarsi di “Missing Receipts” (che fa pensare a un incrocio tra la title track di “Parable Of Arable Land” e un sonnolento rimuginare chitarristico), il disco va in gloria con la lunghissima “When Will You Die for the Last Time in My Dreams” (poco meno di dodici minuti), che alterna indolenza e furia, disincanto e tormento bruciante, rovistando nel ventre di Television, Grateful Dead, i soliti Sonic Youth e l’estasi di un sogno ad occhi aperti, che sempre più assomiglia a un incubo.
Quando mi vedi salutare
Non ricambiare il saluto
Potrei non sentire il bisogno di spiegare cosa intendo
È una danza pericolosa
Ma se ne avessi la possibilità
Ti porterei ai confini del mondo
È più strano delle storie che scegli
Per il telegiornale della sera
Non sento mai il tuo nome perché lo scrivi tutto da solo
Ai confini del mondo
È un lavoro ben fatto
Ti spareranno per dare un'occhiata al tuo guscio di plastica lucida
Da qualche parte a sud del tuo quartiere
C'è un sapore chimico
Non così lontano dal tuo hotel
La radio sta lanciando un incantesimo
Da qualche parte a sud del tuo confine
Riesci a seguire l'ordine
Come un antico esploratore
Hanno riconosciuto i tuoi occhi e ancora non sai perché
Quando morirai per l'ultima volta nei miei sogni?
29/06/2025