Clash

Sandinista!

1980 (Cbs/Epic)
post-punk, dub, reggae, pop-rock, world, experimental

In fuga dal punk, con una volante della polizia a sirene spiegate alle calcagna. Police On My Back. In testa un solo interrogativo: "What have I done?". Ce li immaginiamo così, i Clash dell'anno 1980, alle prese con lo smisurato "Sandinista!". Basta sostituire agli sbirri le orde di punk della prim'ora che avevano già gridato al tradimento per il precedente "London Calling", o anche solo gli impresari della casa discografica che avevano mal digerito la scelta di vendere il doppio predecessore al prezzo di un Lp singolo e ora si ritrovavano di fronte addirittura a un triplo album di 36 brani da smerciare a prezzo ridotto (alla fine il compromesso prevedrà la rinuncia ai guadagni delle prime duecentomila copie da parte della band). Un vero suicidio commerciale. Aggiungiamoci un titolo scelto appositamente per dispetto alla Lady di ferro Margaret Thatcher, che tentò di proibire l'uso della parola "sandinista" ai sudditi del Regno Unito per scongiurare pericolose simpatie marxiste (l'appellativo fa riferimento ai guerriglieri del Nicaragua che avevano appena destituito il dittatore Somoza). E allora, sì, c'era proprio bisogno di una fuga quotidiana, come suggeriva quella folgorante cover di un brano del 1967 firmato dagli Equals di Eddy Grant.

Ma di nemici, più o meno dichiarati, "Sandinista!" continuerà ad averne anche in futuro, incluso perfino un estimatore dei Clash come Kurt Cobain, secondo il quale quel guazzabuglio "non corrispondeva affatto all'idea che si era fatto del punk". E certo, perché Joe Strummer e compagni erano già oltre, incuranti delle pretese dei fan e di una critica che vedeva con sospetto contaminazioni troppo eterodosse. Come si accennava, però, il Rubicone era già stato passato con il precedente "London Calling", vero spartiacque che sancì la fine di una intera stagione musicale, quella del punk storico, della Londra del '77 di cui Strummer e soci erano stati tra i maggiori esponenti e che ormai, sin del titolo dell'album, guardavano da lontano. Ma se, nonostante tutto ciò, "London Calling" si poteva ancora considerare un frutto - e tra i migliori in assoluto - del punk britannico, un capolavoro di coerenza e compattezza, "Sandinista!" era un salto nel vuoto, verso nuovi orizzonti sonori forse ancora indefiniti, di certo troppo vasti ed eterogenei per essere compresi appieno. È il destino delle opere bulimiche del rock, condiviso da tanti nobili predecessori, su tutti quell'Album Bianco dei Beatles al quale per tanti versi "Sandinista!" può essere associato: debordante, a tratti confusionario. Eppure oggi di quali delle sue innumerevoli tracce ci priveremmo?
Ecco, all'incirca lo stesso ragionamento si può applicare al mastodonte targato Clash che approda nei negozi il 12 dicembre del 1980 come la più ipertrofica delle strenne natalizie. Un manifesto di "combat rock" militante, con le sue 36 tracce distribuite su tre Lp (poi rimpacchettate in un doppio cd) e la sua abbuffata di generi: punk, reggae, dub, ska, funk, gospel, rap, jazz, calypso, rockabilly, pop d'autore e chi più ne ha più ne metta. La produzione di Mickey Dread (alias Michael George Campbell, guru reggae scomparso nel 2008) funge da collante a una babele di suoni che sperimenta anche con strumenti inusuali per una band tipicamente rock come i Clash e che guarda al mondo, con riferimenti che travalicano la dimensione anglo-americana, per varcare i confini di Europa, Unione Sovietica, Asia, Africa, America Latina e Caraibi.

Disc 1: Benvenuti a Hitsville Uk

Pronti via ed è subito rap bianco. Non il primo, però, come molti asseriscono, perché a bruciare "The Magnificent Seven" sul filo di lana erano stati qualche giorno prima i Blondie di "Rapture". Due brani uno meglio dell'altro, in ogni caso, che ribadiscono una volta di più come l'ibridazione dei linguaggi sia sempre un'opportunità e mai un limite. Nella fattispecie, la base funky e sincopata, costruita su un groove pulsante di basso e batteria (con Topper Headon sugli scudi e tanti ringraziamenti a un giro di Norman Roy-Watts, bassista dei Blockheads di Ian Dury), incornicia un frenetico spoken word che prende di mira il consumismo e l'alienazione urbana. È un'apertura fulminante, che anticipa di anni l'approccio crossover di band come Beastie Boys o Red Hot Chili Peppers. Neanche il tempo di smaltire l'euforia e una intro organo-basso-batteria molto The Jam ci scaraventa in un appiccicosissimo duetto pop tra Mick Jones e la fidanzata dell'epoca, Ellen Foley, in cui l'euforico ritornello celebra sarcasticamente la nascita della scena indie britannica come risposta al monopolio delle major ("Hitsville Uk" come "Hitsville Usa", la sede della Motown).

Non c'è il punk, no. Semmai rivive il suo spirito, dissolto in cantilene di dadaismo puro. C'è il reggae, però, da sempre "richiamo della foresta" dei Clash, che si mescola ai ritmi caraibici diffusi dai Sound System, attraverso ska e derivati. Ecco allora "Junco Partner", omaggio a un classico r'n'b di New Orleans di James Wayne del 1951: tutto normale, se non fosse che tra le pulsazioni dub si insinuano dei violini che fanno molto Irish folk e stridono deliziosamente. Echi, riverberi, bassi profondi e loop consentono ai Clash di destrutturare la loro musica, riformulandola come spazio sonoro aperto. Non è un caso che questo approccio si rivelerà cruciale per la stagione post-punk e per la nascente scena elettronica britannica.
Sembra già tanto, ma è niente rispetto al delirio che segue. Si succedono in rapida sequenza un'improbabile sfida di ballo tra un militare americano e uno sovietico a ritmo disco/funky ("Ivan Meets G.I. Joe"), con Headon voce principale (per la prima e unica volta nella storia dei Clash); il rockabilly fulmineo alla Elvis di "The Leader" (sui tabloid a caccia di scandali sexy in politica); l'ibrido music-hall-punk di "Something About England" (con Mick Jones impegnato in un dialogo con un homeless sulle vicende dell'Inghilterra dalla Prima Guerra Mondiale a oggi); lo straniante valzer trasognato in tre quarti di "Rebel Waltz"; uno swing sovreccitato ("Look Here"); il ritorno ad atmosfere dub, ora più suadenti e minimali ("The Crooked Beat"), con Paul Simonon al microfono.

Forse per venire incontro all'ascoltatore, ancora frastornato da questa centrifuga sonora, i Clash riprendono in mano l'abbecedario punk per l'assalto frontale di "Somebody Got Murdered" (ispirato da un brutale fatto di cronaca: l'omicidio in un parcheggio per futili motivi), che anticipa l'anima più pop-rock di Mick Jones e fungerà da ponte verso "Combat Rock", prima di affidare la conclusione del primo terzo dell'opera al reggae-punk ciondolante di "One More Time" e al suo remix dub quasi interamente strumentale ("One More Dub"), che si fa ipnotico con il suo incedere diluito tra riverberi, flanger e dissolvenze. Un gioco quasi subliminale di variazioni sul tema che si ripeterà anche in altre occasioni, a partire da "Version Pardner", il "doppio" di "Junco Partner" collocato nel terzo disco assieme ad altre rielaborazioni.

Disc 2: Invettive e inseguimenti

Sì, ma che fine hanno fatto i sandinisti? Per trovare la risposta bisogna attendere la traccia n.23, l'undicesima del secondo disco e l'unica in cui il termine appare. Ideale prosieguo della "I'm So Bored With The Usa" dell'esordio, "Washington Bullets" imbastisce un'invettiva a passo di calypso, con tanto di xylofono in gran spolvero, per denunciare le ingerenze statunitensi in America Latina nel periodo compreso tra la rivoluzione cubana e quella nicaraguense, passando in rassegna - con tono fin troppo didascalico - note vicende di golpe, crimini della Cia e politiche imperialiste, ma senza fare sconti neanche all'Unione Sovietica che aveva appena invaso l'Afghanistan. È il cuore militante del Disco 2 che fa il paio con l'accorato funky di "The Call Up", esortazione a respingere al mittente la chiamata alle armi in nome di un nuovo stile di vita ("You're the victim of a military style of life"), in un tripudio sonoro scandito da una fanfara e da uno xilofono tintinnante, mentre il quasi-gospel di "The Sound Of Sinners" si avventura in un attacco frontale alla religione cristiana.

Ma l'impressione è che - un po' come il connazionale Ken Loach sul grande schermo - i Clash siano più a loro agio nel ritratto minuto di periferia, nello scorcio di rabbia urbana, che nella predica universale. Come quando, nel proto-pop-wave alla Cure di "Up In Heaven (Not Only Here)", denunciano le condizioni inumane negli alloggi popolari inglesi. O quando vagabondano per i marciapiedi di New York incitando alla rivolta, come novelli James Brown posseduti nel soul-funk frenetico di "Lightning Strikes (Not Once But Twice)", sorta di "The Magnificent Seven" più morbosa e ossessiva. E soprattutto quando mettono in scena la celeberrima fuga ricordata in apertura. Perché la vibrante "Police On My Back" - climax del secondo disco - è una cover solo per modo di dire: i Clash, infatti, stravolgono l'originale pop anti-apartheid della band anglo-caraibica per farne il cuore punk del disco. Un attacco che è già un capolavoro, con le chitarre distorte a mimare la sirena della polizia, quindi l'irruzione di un isterico Jones che a mo' di mantra ripete la frase "I've been running Monday, Tuesday, Wednesday, Thursday, Friday, Saturday, Sunday..." a sottolineare il senso di accerchiamento vissuto dal protagonista. Nella fattispecie, un individuo in fuga dalla polizia, giorno dopo giorno. Forse ha ucciso qualcuno ("There was a shooting... And the victim, well he won't come back") o forse no, ma in fondo non importa, perché è solo la metafora di una società oppressiva, che perseguita e tiene sotto scacco i più deboli. Un inno paranoico e devastante, tutto giocato sui muri ruvidissimi delle chitarre in accelerazione e sull'andatura forsennata dettata dalla batteria marziale di Headon.

A completare il ricco menù del Disco 2, episodi solo all'apparenza minori come il funk-rock in odore di Pogues di "Corner Soul", le vibrazioni latineggianti di "Let's Go Crazy", che strizza ancora l'occhio a ritmi tribali e al calypso caraibico, l'afflato reggae-dub che riaffiora tra i violini dell'allucinata "The Equaliser" e tra i ricami del sax soul-jazz di Gary Barnacle in "If The Music Could Talk" (con un testo su un canale e uno diverso sull'altro), la scheggia rock 'n' roll di "Midnight Log" e lo spoken word ad alta densità di whisky della decadente e jazzata "Broadway", che chiude il disco con tanto di spiazzante "remake" di "The Guns Of Brixton" per piano e bimba di cinque anni (!).

Disc 3: dall'Irish folk ai semi del trip-hop

Metti su il terzo disco e ti sembra di aver sbagliato Lp. E invece no. Perché l'Irish folk rabbioso di "Lose This Skin", affidato all'ugola androgina e ai riff di violino di Tymon Dogg (cantautore-busker e amico di Joe Strummer), è solo un'altra voce dalla rivolta globale. Quella di chi sente bisogno di cambiare pelle per sfuggire a una prigionia ("I've got to lose this skin I'm imprisoned in"), a un insieme di regole e responsabilità che finiscono per soffocare. E fortunatissimo è anche il cambio di pelle del sound: un folk virato punk che sembra anticipare l'estetica di Pogues e Billy Bragg (o per restare in Italia: Gang e Modena City Ramblers). Un'irruzione straniante, ma coerente all'interno di un disco che fa del disorientamento il proprio metodo. Chi la ritiene un corpo estraneo, semplicemente, non ha capito lo spirito di "Sandinista!".

In un terzo atto che finisce un po' stiracchiato con diverse variazioni sul tema di brani già ascoltati - "Living in Fame" (dub version di "If Music Could Talk"), "Silicone On Sapphire" (dub version di "Washington Bullets"), "Version Pardner" (dub version di "Junco Partner") e la nuova versione della "Career Opportunities" dell'album d'esordio, interpretata dai due figli del tastierista Mick Gallagher - non mancano altre prodezze. Su tutte quella spiazzante "Charlie Don't Surf" che dietro tastiere atmosferiche quasi wave e un ritornello scanzonato cela un'amara riflessione sull'intervento americano in Vietnam (charlie era l'appellativo dei vietcong usato dai soldati Usa), citando nel titolo una celebre battuta di "Apocalypse Now" di Francis Ford Coppola. Prenderanno nota i Baustelle per la loro "Charlie fa surf", ma - a quanto pare - anche i Tears for Fears: in un'intervista del 1988, infatti, Strummer rivelerà di aver incontrato Roland Orzabal e di avergli detto: "Mi devi cinque sterline", spiegando che il titolo di "Everybody Wants To Rule The World" era preso pari pari dalla prima riga del bridge di "Charlie Don't Surf". E il buon Orzabal si infilò una mano in tasca e gli diede la fatidica banconota.

Ma anche apparenti filler rivelano in realtà lo stato di grazia del gruppo: prendiamo la jam lunare di "Version City", che parte ubriaca con inserti radiofonici e voci distorte alla Zappa, per decollare sulle cadenze di un elegante riff di piano che oscilla dalla luminosità delle note alte ad accordi più bassi e sinistri, con l'armonica che si insinua e la batteria che incalza. Oppure il blues vellutato di "The Street Parade" e il reggae di "Living In Fame", che tramuta "If The Music Could Talk" in un dub straripante. E se il collage di sovra-incisioni di "Mensforth Hill" gioca a sperimentare nel segno dell'anarchia, tra un organo liturgico e cadenze etniche, il blues paranoide di "Junkie Slip" inscena un surreale rituale voodoo, che prelude alla festa militante di "Kingston Advice" ("In these days the beat is militant/ Must be a clash, there's no alternative"), dove il reggae è solo introiettato dentro sonorità pop-rock che sembrano già proiettate verso la successiva hit "Rock The Casbah".
A chiudere, l'allucinazione dub di "Shepherds Delight", composta insieme al producer Mikey Dread: cupa, strumentale, avveniristica. Sembrano già dei Massive Attack in embrione.

Epilogo

"Sandinista!" è anzitutto un formidabile gioco di squadra, non a caso per la prima volta i pezzi vengono accreditati a tutti e quattro i componenti dei Clash e non solo alla coppia Strummer/Jones, come accadeva nei lavori precedenti. Una smisurata session collettiva che fa della contaminazione e dell'eclettismo cosmopolita il suo Dna, proprio nell'anno in cui i Talking Heads di "Remain In Light" spalancavano una porta sull'Africa.
Inizialmente, come prevedibile, dividerà i fan e la critica, pur riuscendo a difendersi nelle classifiche di vendita, contrapponendo al deludente numero 19 nel Regno Unito, un dignitoso numero 24 negli Stati Uniti, loro miglior piazzamento fino a quel momento (per quel che può valere, sarà anche il massimo successo della band in Italia: numero 27 nella classifica di Sorrisi, con 17 settimane di permanenza nella top 50). Col tempo - che come noto è galantuomo - finirà con l'entrare in svariate liste dei migliori album di sempre, inclusa quella di Rolling Stone, ma, soprattutto, gettando i semi per innumerevoli crossover. I Mano Negra, Manu Chao e la cosiddetta patchanka? Praticamente inimmaginabili senza "Sandinista!". Ma tra i debitori - più o meno confessi - possiamo annoverare Rage Against The Machine, Green Day, Beastie Boys, i cileni Prisioneros e tanto dub, reggae-rock e trip-hop a venire. In Italia si è detto di band come i Gang e i Modena City Ramblers. Per non aprire il capitolo delle innumerevoli cover e dei tributi, il più esplicito dei quali, "The Sandinista! Project" (2007), ha riunito The Smithereens, Camper Van Beethoven, Matthew Ryan, Katrina Leskanich, Willie Nile, Jon Langford e tanti altri, a conferma dell'influenza imperitura di questo monolite tridimensionale datato 1980.

Eccessivo, sì. Sforbiciabile in più punti? Certamente. Antesignano della iper-produttività contemporanea che spinge a registrare tanto e pubblicare tutto? Ecco, questa sarebbe forse la sua unica colpa, a patto di potergliela addebitare. Lo stesso Strummer chioserà da par suo: "Ho discusso parecchie volte con la gente su cosa dovessimo metterci e cosa no, ma ora, ripensandoci, non riesco a separare le canzoni. È come gli strati della cipolla: ci sono pezzi stupidi e altri bellissimi. Più ci penso più sono felice di come sia venuto". "Sandinista!", insomma, è concepibile solo così, nella sua vocazione onnivora e temeraria: prendere o lasciare. E noi convintamente prendiamo.

22/06/2025

Tracklist

1. The Magnificent Seven
2. Hitsville U.K.
3. Junco Partner
4. Ivan Meets G.I. Joe
5. The Leader
6. Something About England
7. Rebel Waltz
8. Look Here
9. The Crooked Beat
10. Somebody Got Murdered
11. One More Time
12. Ore More Dub

13. Lightning Strikes (Not Once But Twice)
14. Up In Heaven (Not Only Here)
15. Corner Soul
16. Let’s Go Crazy
17. If Music Could Talk
18. The Sound of Sinners
19. Police On My Back
20. Midnight Log
21. The Equaliser
22. The Call Up
23. Washington Bullets
24. Broadway

25. Lose This Skin
26. Charlie Don’t Surf
27. Mensforth Hill
28. Junkie Slip
29. Kingston Advice
30. The Street Parade
31. Version City
32. Living In Fame
33. Silicone On Sapphire
34. Version Pardner
35. Career Opportunities
36. Shepherds Delight

N.B. Questa la scaletta ripartita nei tre dischi della versione originale del 1980. Successivamente l'album è stato ristampato in due cd.




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