Fine Before You Came

Sfortuna

2009 (La Tempesta Dischi / Triste)
emocore, post-hardcore

Ho tirato pugni da ogni parte solo per uscire da un sacchetto di carta
Scoperto posti in cui dove parcheggi, in fondo, a nessuno importa
E camminato in tondo per ore e ore
Senza mai guardare in alto per paura di ammettere di avere paura
Ho chiamato i miei insuccessi sfortuna
Maledetta sfortuna
(“Vixi”)

Dov’è che si scagliano quei pugni? Forse al cielo, sebbene non ci si fermi mai a fissarlo. Un cielo che - se decidi di farci i conti - può schiacciarsi sulle ossa fino a comprimerle, sia esso il soffitto tinteggiato bianco di casa o un’immensità grigia e opprimente che si insinua dalla finestra. “Espressivo come un blocco di ghisa”, direbbe l'autore di uno dei più celebri romanzi adolescenziali italiani degli anni Novanta, che quel cielo lo collocava nella sua Bologna. Ma a Milano, sopra la testa di Jacopo Lietti, non doveva essere tanto diverso. Così come non sarà diverso in nessun altro posto al mondo. Quel cielo sarà uguale per chiunque ne faccia ripostiglio delle proprie paure. Prenderlo a cazzotti è tanto facile quanto inutile; eppure nella vita finiamo per farlo tutti, ben attenti a tenere allo stesso tempo gli occhi bassi. Perché è a guardarlo in faccia che serve coraggio; niente ci fa più paura della paura stessa.
Il grido di “Vixi” si fa così disperato inno generazionale. Se riesci a sentirlo addosso, non puoi restarne indifferente; ti fotografa, ti spoglia, ti prende per i capelli e ti trascina d’impeto di fronte allo specchio. Ti atrofizza nel momento esatto in cui ti mostra che a tirare quei pugni sei proprio tu.

 

Tutto ciò accade nel 2009. Un periodo in verità ambiguo per la scena alternativa italiana. Il termine “indie” è ancora salvo da un’inflazione che lo renderà appannaggio della pop culture degli anni a seguire, continuando a rimarcare con fierezza uno status di distacco dal mainstream. La coda degli anni Zero si presenta però come un momento di particolare magra; il grande banchetto della ribalta degli anni Novanta, pur capace di protrarsi fino alle prime battute del nuovo millennio, è ormai concluso, così come si è esaurita anche la scia più di nicchia (ma comunque significativa) cavalcata in primis da formazioni delle scuderie Homesleep e Santeria.
A fine decennio, da un lato l’attenzione del circuito indipendente si ritrova maggiormente concentrata su un certo tipo di cantautorato (il che rappresenterà una sorta di anticamera della transizione pop che coinvolgerà la concezione di “indie” nel giro di pochi anni), dall’altro è venuto a mancare il carattere collettivistico del movimento preso nel suo complesso. A farsi carico del compito di tener viva la scintilla è soprattutto La Tempesta, label fondata nel 2000 da Enrico Molteni (bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti) che diventa in breve tempo il principale aggregatore dei grandi nomi attivi (e sopravvissuti) nell’area alternativa italiana.

 

Se è innegabile una certa frammentazione della comunità indie italiana, di contro, l’universo degli sparpagliati sottoboschi reconditamente underground vibra e pulsa più di prima. In tale frangente, c’è chi vive una stagione di particolare fermento: la scena emocore. Lo stillicidio emo dei primi anni Duemila ne aveva brutalmente vandalizzato l’etica e l’estetica, ma contestualmente aveva avuto il merito di accendere - sebbene per una cerchia ristretta - anche l’attenzione sulle declinazioni più pure del genere. In Italia si era così sviluppato un filone vivace e appassionato, capace di interpretare in maniera originale i canoni delle più profonde radici post-hardcore e screamo dell’emo. Erano nate band come La Quiete, Raein, The Death Of Anna Karina, attorno alle quali si era venuto a creare un culto estremo nel suo pur limitato raggio, forgiato da lacrime, sudore, lividi, cicatrici nel cuore. I cadetti di questo piccolo esercito si ritrovavano a urlare e sfogare la propria anima stipati e ammassati in locali bunker di periferia, in un ambiente totalmente avulso da qualsiasi cenno di interesse mediatico. Eppure, apparentemente invisibili, rappresentavano la faccia più cruda e sincera della propria generazione; del resto, la vituperata moda emo-pop di quegli anni, nonostante la deriva farsesca, aveva chiaramente indicato gli umori del tempo, scoperchiando in un certo senso un vaso di Pandora.
C’era però bisogno di un manifesto che travalicasse il perimetro delle mura annerite di quei sotterranei, che trasportasse la narrazione di quel dolore così semplice e viscerale al di fuori della scena strettamente intesa. A spiegarti che l’emo non è quello che ti hanno raccontato, ma, hey, questa è una storia seria, e riguarda anche te. Proprio te, che a vent’anni facevi a botte con l’aria.

È qui che arriva “Sfortuna” dei Fine Before You Came (anche accreditato come “S f o r t u n a”). L’album che assurge, appunto, a manifesto assoluto dell’emocore italiano, ma anche spartiacque, più in chiave retrospettica che evoluzionistica. “Sfortuna”, pur dandone rinnovata visibilità, non segna infatti un nuovo corso per un genere che in fondo aveva già espresso quasi tutto; ne è però approdo definitivo, simulacro che ne riassume tutto il senso, veicolando quell’immaginario verso un pubblico non certo “di massa”, ma non più confinato in sé stesso. Nel fare questo, mostra come - probabilmente - l’emo sia stato, in un’accezione più ampia, la vera grande occasione persa (complice anche un certo stigma disceso dalla mistificazione mainstream) della scena indipendente; l’attitudine che forse - in un momento tra l’altro alquanto statico per il resto del mondo alternative - meglio di qualsiasi altra avrebbe potuto raccontare quegli anni. Raccontare una generazione cresciuta con la convinzione di essere nata fallita, ma a cui fa male ammetterlo; che chiama sfortuna i propri insuccessi, la maledice, ma si accorge di maledire solo sé stessa.

 

A far uscire questa gemma fuori dal ghetto del DIY e delle microscopiche etichette specializzate ci pensa proprio Enrico Molteni, che accoglie i Fine Before You Came tra le braccia de La Tempesta. Lietti e soci avevano già pubblicato tre dischi in inglese, con i Van Pelt a fungere da numi tutelari (sin dalla scelta del nome); la svolta in italiano è come un’epifania e Molteni non ci pensa due volte. Lui stesso definirà “Sfortuna” uno dei dischi de La Tempesta di cui sarà più orgoglioso.
La produzione è secca (verrebbe da dire vagamente “albiniana”), le metriche sono scomposte, la copertina è una foto qualsiasi di cinque ragazzi qualsiasi. Ma cos’ha allora di così speciale “Sfortuna”? Innanzitutto, il non essere un’opera prettamente emo. I Fine Before You Came fondono linguaggi di diverso tipo; post-hardcore e post-rock, l’emocore allargato e dilungato da sembrare a tratti slowcore e lo slowcore innervosito da sembrare a tratti emocore.
Musicalmente non si tratta quindi di una mera riproposizione in lingua nostrana degli schemi Midwest o screamo statunitensi; in “Sfortuna” risuonano echi di Fugazi, At The Drive-In, Slint, Codeine, territori che la band esplorerà in maniera sempre più ampia nel prosieguo della propria discografia. Una miscela esplosiva, la cui sintesi risulta molto più personale che derivativa; ma non è tanto il lato tecnico a fare la grandezza dell’album. “Sfortuna” è un ceffone in pieno volto, un calcio nello stomaco, o entrambe le cose insieme. Attanaglia la testa e le membra. Scava talmente a fondo in scenari intimi da trasporli nell’universale. Ti fa implodere nei sensi di colpa senza alcun spiraglio di indulgenza o redenzione, ma apre tutto lo spazio per gettar fuori quantomeno un urlo di catarsi.

La marcia caustica e raggelante di “Lista” apre i giochi, diradandosi in un’inquietudine da slowcore sotto steroidi, la cui ipnosi in loop viene interrotta dopo due minuti dal grido angosciato e lontano di Lietti. “Buio/Appello” risale a ritmi hardcore taglienti e martellanti e riproduce in atmosfere sonore e liriche la gabbia di conflitti interiori irrisolti ed irrisolvibili.

Non aver paura del buio
Meglio non vedere che
Cercare invano e non trovare
Non riesci a dormire, pensi a me
E allora pensami che sto bene
Col mio nuovo sorriso perpetuo
Col mio andamento vacanziero
E corpo steso al buio
Qua intorno non c'è che buio
Buio, qua intorno non c'è che buio
Io non ho paura del buio
Meglio non vedere che cercare invano di evitare
Il soffitto, attendo da ore che mi crolli addosso
Ma non illuderti, non esistono risarcimenti
Per quello che hai perso, per quello che non hai avuto mai
(“Buio/Appello”)

Proprio i testi rappresentano il punto focale di “Sfortuna” (e in generale di tutti i lavori dei Fine Before You Came); impalcature portanti dei brani, ne sono nucleo di partenza e motore d’azione, lasciando intendere come siano probabilmente le musiche a essere cucite attorno alle parole e non viceversa.
Così “Fede” incede obliqua e dissonante, esplodendo tra cori struggenti in un ritratto ermetico dei fantasmi di un amore finito, che si riversano nella drammaticità di semplici visioni quotidiane.

Nella tua vecchia casa ora vive una coppia con un figlio
è un bambino silenzioso
Vestito da adulto, con fare da adulto
[…]
Io non mi sono mai vestito da adulto
(“Fede”)

Si arriva così alla disillusa nevrosi sentimentale di “Natale/Cena” e alla danza psicotica di “O è un cerchio che si chiude”, ossessioni strillate da un cuore dilaniato, e agli episodi più puramente emocore di “Piovono Pietre” (dal vago sentore di Get Up Kids prima maniera) e soprattutto della già menzionata “Vixi”, epitaffio di condanna senza riserva delle fobie e delle ansie dei millennials.

 

Al di là di tutto, tentare di giudicare “Sfortuna” da un punto di vista critico è un esercizio totalmente fine a sé stesso. “Sfortuna” è uno di quegli album che si può soltanto sentire bruciare sulla pelle. È urgenza e istinto primordiale, che non lascia tempo di riflessione o analisi. Spaventa nel dilagare del suo spleen e del suo pathos. Se riesci ad afferrarlo ne fai disco della vita. Anche per questo, visto a distanza di oltre una decade, rimane una pietra angolare del panorama alternativo italiano contemporaneo. Da un lato, restituisce al concetto di emo la dovuta dignità ingiustamente perduta, cantandone in un certo senso il requiem. Di fatti, sebbene sulla scia di “Sfortuna” negli anni a seguire le band della scena italiana inizieranno a moltiplicarsi esponenzialmente (fino a consolidare una florida “scuola” screamo apprezzata anche all’estero), quel mondo resterà comunque infossato nella propria nicchia, con un mai sopito ardore identitario, ma per lo più con poco da aggiungere al discorso (al netto di una vaga tendenza revival che sembra si stia sviluppando negli ultimissimi anni).
I Fine Before You Came rimarranno gli unici in Italia ad aver scavalcato concretamente il recinto; manterranno comunque un approccio da ortodossia hardcore, continuando a prediligere la dimensione live e rifuggendo i nuovi paradigmi di promozione e di mercato (incluso un utilizzo dei social ridotto all’osso, che sarà addirittura definitivamente accantonato da un certo punto in poi) e muteranno man mano i tratti del proprio stile, traslandolo sempre più (in particolare dopo “Ormai”) verso i lidi del post-rock, probabilmente consci per primi di come la stagione emocore fosse arrivata al plateau.

 

Più specificamente però, l’importanza di “Sfortuna” è data soprattutto dal suo sotterraneo impatto sull’intera cultura indie nostrana in divenire; l’avvento dei Fine Before You Came costringe tutta la nuova generazione, volente o nolente, a confrontarsi con l’emo. Nel fare questo, in uno sguardo col senno di poi, ci racconta cosa eravamo, cosa non siamo stati, cosa potevamo essere.
Non si può comunque ignorare come un certo tipo di poetica del disagio postmoderno del cosiddetto indie italiano contemporaneo, comprese le varianti in salsa pop sviluppatesi a partire dagli anni Dieci, sconti un debito di influenza diretta o indiretta - a volte apertamente dichiarata - con quella narrazione che “Sfortuna” cristallizza con un’espressività debordante e trafiggente, con disarmante alchimia di alienazione arida e voglia di gridare con i pugni al cielo, grazia disgraziata e potenza abissale. Tanto che, tutt’oggi, “Sfortuna” riesce ad essere realmente attuale e capace ancora di folgorare le nuove leve di ascoltatori.
I Fine Before You Came conserveranno negli anni uno status di culto comparabile a poche altre band ancora attive, proseguendo una carriera di rara onestà artistica, forti di una capacità di reinvenzione che in ogni caso non tradirà mai le proprie radici. Con loro proveremo a capire settembre e anche forme più complesse. Ma queste sono altre storie. Intanto siamo in tanti ancora qui, magari ormai vestiti da adulti, ad ascoltare e riascoltare quel monumento di “Sfortuna”. Che continua a tirarci addosso tutti i detriti della nostra vita.

20/11/2022

Tracklist

  1. Lista
  2. Buio/Appello
  3. Fede
  4. Natale/Cena
  5. Piovono pietre
  6. O è un cerchio che si chiude
  7. Vixi

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