Dot Allison

Dot Allison

Le luci dell'angelo scozzese

Reduce dalla pregevole e sfortunata avventura degli One Dove, la scozzese Dot Allison ha saputo forgiare un canzoniere di incantevole grazia e raffinatezza. Una voce spontanea, ingenua e melodiosa, che riesce a plasmarsi alla perfezione alle sonorità futuristiche delle canzoni

di Alessandro Biancalana

Per raccontare una storia, solitamente, è necessaria tanta fantasia e un pizzico d’amore per quello che si cerca di narrare. In questo caso, la fantasia sarà utilizzata solo per scegliere le migliori parole, quelle più adatte; il resto, sarà colmato dalla carriera di un’artista straordinaria.

Dorothy Allison nasce il 17 agosto 1969 a Edinburgo e la sua carriera inizia in maniera molto precoce.
Nel 1991, viene alla luce la sua prima band, gli One Dove. La formazione, da lei stessa fondata, comprende altri due componenti: Ian Carmichael e Jim McKinven (da ricordare la sua militanza nella band new wave Altered Images), entrambi addetti alla tastiere e agli effetti elettronici; in più, McKinven suona anche il basso. Una piccola curiosità: nei primissimi esordi il nome ufficiale del gruppo è semplicemente “Dove”, solo successivamente decideranno di cambiare in “One Dove”.

La band inizia a farsi notare con la pubblicazione di diversi singoli, che mettono in risalto il loro stile compositivo oscuro e particolare. In ordine, prima del rilascio dell’album d’esordio, usciranno Fallen (in due versioni viniliche differenti) nel ’91, Transient Truth (1992), Breakdown (1993). Soprattutto per quest’ultimo, le uscite saranno di vario tipo, inclusi remix del pezzo omonimo o di altri del repertorio, per ora abbastanza esiguo, della band. 
Leggendo i nomi di quanti si prestano a offrire le proprie capacità di produzione, spiccano sicuramente due figure di assoluto rilievo: William Orbit e Andrew Weatherall. Se il primo si limiterà a un lavoro esclusivamente professionale, il secondo si affezionerà ai tre componenti del gruppo e ne coglierà il talento. Un sodalizio, quello con Andrew, nato proprio in Italia: nel 1991, durante un concerto in un’estate torrida di Rimini per presentare il singolo “Fallen”, casualmente avviene l’incontro.

Da lì a poco uscirà Morning Dove White (1993). Tralasciando le varie versioni che ne verranno pubblicate, ci concentriamo sulla primissima uscita, la più rappresentativa, che annovera anche vari remix. Le coordinate musicali dell’album sembrano abbastanza chiare, visto il curriculum di Andrew Weatherall. Il disco è davvero in pieno periodo deep-ambient-house. I ritmi non sono mai estremi, ma molto distesi, ritmici nel sottofondo, deliziosamente oscuri e malinconici. La variazione di suoni e l'approccio melodico sono sempre sopraffini, l’indirizzo stilistico spazia da intrecci deep-house ad atmosfere down-tempo, che rapiscono e non liberano più. Feedback di chitarra processati al sequencer creano vortici elettronici pieni di incisività, i beat si alternano con grande variazione, insieme al battere di percussioni che cambiano sembianze con lo scorrere delle tracce. Un elemento che risalta immediatamente è la voce dell’esordiente Dorothy: personale e profonda, emozionante. Il suo modo di cantare è interrogativo e pieno di pathos, non ancora completamente svelato, visti gli sviluppi futuri. Ma non corriamo, siamo soltanto all’inizio...
Il tocco del produttore di classe si sente. D'altronde Andrew è rinomato anche per aver prodotto un capolavoro riconosciuto un po’ ovunque come “Screamadelica” dei Primal Scream. Date le premesse, non poteva non tirar fuori un qualcosa di eccezionale.
Come già accennato sopra, l'impeto della scrittura della Allison è sempre assopito, nonostante riesca a esprimersi come cantante con risultati discreti, se non buoni.

L'iniziale “Fallen” prende il via con un synth sporco e rimbalzante, piccoli sospiri in sottofondo, il battito digitale profondo e infinito. Il ritmo non si lascia mai andare, ma rimane sempre sospeso a mezz'aria, adagiato sulla voce femminile, che canta : "I don't know why I'm telling you any of this, one thing is, don't ever tell anyone I told you this. Don't save me, just forgive me, forgive me, 'cause I was only thinking of you.. Just You”. Già da queste parole si intravede il romanticismo malinconico che pervade l’animo dell’artista. Un pezzo adatto a ogni situazione, mai completamente danzerino né del tutto introspettivo.
La già citata “With Love” è caratterizzata da un flusso chitarristico lacerante e sfacciato, una minimal-bastard-house come solo i Sabres Of Paradise (o i Two Lone Swordsmen qualche anno dopo) ci sapranno regalare.
A costo di diventare ripetitivi, si sente ancora il bisogno di sottolineare la bellezza della voce di Dorothy, capace di rendere immaginifico anche il silenzio. Piccole gocce di magia in questi pochi versi : "White love, this love; this powerful, this pure. Behind our eyes. And when I trip, when I fall; it's just like velvet”.
”Breakdown” è un digital-dub à-la “Screamadelica” (nessuno ne dubitava, sinceramente), impreziosito da intrecci percussionistici scomposti e sinuosi, in “There Goes The Cure” c'è un po’ di IDM, un po’ di ambient, gocciole di down-tempo e tanto ritmo, ritmo che straborda da ogni angolo. Da cardiopalma il ritornello della prima qui citata, che recita: "I remember the night you left me, the moon was full, I felt empty. Tides and werewolves may be turned, but you don't know how to cry”.
Il secondo episodio della coppia è contornata da bleeps stellari, scomposizioni ritmiche e rumori vagamente industriali. Si aggiunge, sul finire, un crescendo pianistico che mette i brividi per tanto è intenso. Forse il pezzo più propriamente romantico e crepuscolare di tutto il disco; un episodio mutante, che cambia pelle con il passare di tutti i sei minuti. Il basso, particolarmente in evidenza, si unisce a braccetto con gli altri elementi, conducendo al termine con grande garbo e dolcezza.
Una coppia di brani che confermano quanto detto: questa band merita(va) e dovrebbe uscire dallo stato di culto sotterraneo nel quale versa.
”Sirens” è sulla falsariga delle precedenti, con l’aggiunta di una serie di tastiere molto funk, a dimostrazione di come l'accoppiata One Dove/Weatherall possa creare pezzi di validità assoluta cambiando gli elementi, senza perdere coesione nel risultato finale. Di grande impatto e poeticità il testo: ”You can send me ravens, I have the will of a demon. Wish me all the ills you have. I am touched by angels. Plant your secrets in my silence. My sadness caught in your gaze. Sail over me.”
I riverberi metallici di “My Friend” lasciano brividi indelebili, il pezzo si sviluppa su azzeccati cambi di ritmo, su cui si sovrappongono vari strati sonori, dal rullante processato, ai cori di Dorothy, fino al suono di uno strumento a corde sconosciuto, che pare un’arpa. Un frangente mistico e attraente. Prosegue con grande coerenza, e sviluppando ulteriormente la formula fin qui proposta, la successiva “Transient Truth”, uno dei primissimi singoli pubblicati all’inizio della carriera. Il pregio di tutto il disco, confermato anche in questo caso, risiede nella capacità di mettere insieme ogni volta, in modo mai ripetitivo, un’atmosfera che circonda completamente l’ascoltatore, rendendolo incapace di reagire. La traccia in questione ha un tiro percussivo di grande rilievo, fin dai primi secondi d’apertura, in cui alcuni cori sintetici (elemento molto presente all’interno di tutta l’opera) si accoppiano con il lamento angelico di Dorothy. Poi, ancora, le parole: "Listen, can you think about this, if you take my words as promises, well you can keep them. They're yours to keep”. Versi che evidenziano la grande capacità di analisi introspettiva di Dorothy, che firma alcuni dei testi.
"When I sit and dream, the skies cry with me. Now that I'm alone, your voice wraps round me”, recita la successiva “Why Don't You Take Me”, una splendida ballata pop impreziosita da un synth spaziale e dalla voce di Dot, sempre più decisiva e angelica. Concludono il disco alcuni rifacimenti come la reprise pianistica di "With Love" e i remix (già editi precedentemente) di “Breakdown” e (ancora lei) “With Love”.

Sempre nello stesso anno (1993), vengono rilasciati numerosi remix di alcune delle canzoni presenti nell'album, a testimonianza del grande interesse suscitato dall’opera di Dorothy e compagni presso gli addetti ai lavori. In particolare, proficui gli interventi di Stephen Hague (produttore storico in ambito inglese negli 80’), che cura praticamente tutte le uscite del singolo "With Love", edito in sette differenti versioni, fra vari interventi al mixer e cambiamenti di tracklist.
La versione che contiene i frangenti più positivi è quella pubblicata dall’etichetta Boy's Own Recordings. Oltre al mix per la radio (a cura del sopracitato Stephen Hague), già ascoltato nel disco appena commentato, è presente un rifacimento operato dalla stessa band, intitolato “With Love (Lonesome Demo)”. I cambiamenti principali sono l’innalzamento della durata a più di 10 minuti, e l’esasperazione della componente percussionistica. Se il ritmo nella versione originale era molto diluito e disciolto, qui il battito si sente in maniera più decisa, nonostante la durata contribuisca a non rendere il drumming troppo ossessivo. Considerati gli autori del remix, ciò dimostra l’identità camaleontica dei componenti, sempre pronti a mettere in discorso le proprie scelte iniziali e modificare il lavoro fatto in origine.
Concludono i due mix posti in coda, intitolati rispettivamente “With Love (Guitar Paradise Mix)” e “With Love (Meet The Professionals Dub)”. Se nel primo gli spasmi sintentici aumentano di pari passo con i riverberi chitarristici, nel secondo la struttura viene pesantemente cambiata con ritmi dub (come da titolo), destrutturazioni di synth e drum-machine, e con l’eliminazione del cantato.

Successivamente, sempre nel 1993, viene rilasciato il secondo (e ultimo) singolo estratto dall’album: “Why Don’t You Take Me”, anche questo edito in varie sembianze. Dopo la versione originale della traccia omonima, sono presenti una cover e un inedito che si discostano in parte dalla musica fin qui proposta. Prima “Jolene” di Dolly Parton (cantante country americana attiva negli anni 50/60) viene deteriorata e trasformata in un pop stellare e scintillante (e qui la voce di Dorothy inizia ad avere certi tratti ritrovabili nella sua carriera solista), poi, “Skanga”, uno strambo episodio con vaghi sapori tribali e psichedelici. Per finire, un remix abbastanza positivo del pezzo di apertura, firmato da Stephen Hague, che dura circa 4'30''. La traccia però conta 5'50''; dopo qualche secondo di silenzio, spunta infatti uno stralcio di composizione esclusivamente edita da Dot, che la nostra ripubblicherà a nome Dot Allison in un Ep intitolato Mo’Pop.
Accordi di chitarra solitari sferzano il silenzio con grande incisività, con una registrazione volutamente povera e dismessa. Dot recita e incanta con stille di malinconia, dando un piccolo assaggio della sua carriera futura. Da segnalare, in coda, un remix di “Why Don’t You Take Me” degli Underworld, rilasciato su un vinile sempre impacchettato dalla coppia Stephen Hague & Andrew Weatherall.

Dopo questa ondata di riconoscimenti e collaborazioni, la band si assopisce per tre anni, nei quali i tre componenti rimangono insieme ma non pubblicano niente di nuovo. Vengono composti diversi inediti appositamente per le radio, purtroppo mai apparsi ufficialmente e perciò irreperibili. Stando al sito ufficiale del gruppo, questi pezzi si intitolano “Untouched”, “Drowing”, “Mystic Baby” e “Swampman's Revenge”.
Nel 1996, la band si disgrega. Forse le evidenti capacità compositive di Dot erano già emerse e gli altri due componenti non potevano seguirla adeguatamente, forse lei stessa aveva deciso di tentare la carta solista, fatto sta che da quel momento in poi non si registrano più contatti fra i tre.

Tre ulteriori anni di silenzio dividono Dot Allison dalla pubblicazione del suo album di esordio, intitolato Afterglow. Tutto è cambiato, lo si capisce subito all’attacco di “Colour Me”. Ma andiamo adagio. All’interno del disco spuntano figure di spicco: Hal David, storico collabora di Burt Bacharach, dà una mano in fase di produzione, Kevin Shields (sì sì, il genio dei My Bloody Valentine) suona la chitarra nella stupenda “Message Personel”, gli Arab Strap regalano un remix della stessa traccia, Gary "Mani" Mounfield (componente prima degli Stone Roses, poi dei Primal Scream) suona il basso in diverse tracce, e infine Richard Fearless dei Death In Vegas, autore anche di un remix di “Message Personel”, funge da aiuto-produttore. Una collaborazione, quella con la band inglese, che durerà negli anni in maniera molto assidua; Dot apparirà in vari dischi del gruppo in veste sia di cantante sia di compositrice. Per la precisione, canterà in “Dividing Horses” (nell’album “Scorpio Rising”), e si fregerà del marchio di co-autrice del pezzo “Dirge”, pubblicato sull’album “The Contino Sessions”.
Bene, ora tocca alla musica.

”Afterglow” si colloca nei binari di un cantautorato tutto personale, con una forte attitudine al ritmo rilassato e sognante. Si scorgono influenze vagamente dream-pop, diffuse scorie trip-hop, e, in generale, un amore per la musica introspettiva e malinconica, come del resto già si era intravisto nella parabola degli One Dove. I testi, pura poesia nata dalla penna della stessa Dot, mescolano in modo immaginifico sofferenza disincantata, racconti di un ragazza mai cresciuta, storie di esperienze misteriose, fiabe quotidiane, dolori indicibili.
L'iniziale “Colour Me” è già meraviglia: semplice, sorretta da un linea di basso pulsante, circondata da spurie elettroniche, abbellita da quella voce che finalmente può esprimersi in tutto il suo calore, recitando le seguenti parole: ”As the tides they draw and close, And the seasons turn again. Will the moon still wax and wane? Will you always colour the day?". L'effetto sulla voce nel ritornello è dondolante e appicicoso, costringe quasi l'ascoltatore ad ascoltare, come se venisse carpito da un demone sonoro.
Prosegue “Tomorrow Never Comes”, forse la più bella canzone d’amore scritta da Dorothy Allison. Trasuda un amore velato, mai completamente dichiarato; un amore doloroso e finito: "You're sailing away, to another shore. My heartache today, I can't tell you anymore. And I thought I saw your shadow in the street today, but that was yesterday, oh that was yesterday [...] Believe me I know it's been hard for you, there's never an easy way to let it go. And I dreamt that you were telling me you dreamt of me, but now I'm waking up, I think I'm waking up [...] And I thought I saw your jacket in my room today, but that was yesterday, oh was that yesterday?". Parole che, pronunciate da una voce così angelica, suscitano un’emozione unica. Fanno da contorno sparuti accordi di chitarra, rimbombi elettronici in sottofondo, piccole note di piano che appaiono e scompaiono nell'arco di un attimo.
Ci viene incontro “Close Your Eyes” e il ritmo si fa assai più sostenuto, dando qualche indicazione per l'album successivo, We Are Science. Anche in questo caso il testo è di grande valore, fra incanto e sollievo. Recita il ritornello: "Close your eyes, Let me take you to the sun. Burning slowly, held together in the sky”. In superficie, appare una semplice ballata pop/rock, ma nei suoi meandri più remoti nasconde preziose trovate melodiche. Da ascoltare di notte, in cuffia.
Appena dopo arriva “Message Personel”, già menzionata per la presenza alla chitarra di Kevin “My Bloody Valentine” Shields. Quasi 7 minuti di desolazione sonora, il niente che si trasforma in pienezza, parole ripetute con insistenza che si fanno significative: "I'm inside, I'm outside. I'm with you, without you. Don't love me, don't leave me. Don't trust me, believe me. Embrace me, release me. Deny me, then feed me. I'll own you, then lose you. So distant, so near me". Contraddizioni che si rivelano importanti nel contesto di una canzone inestimabile. Tanto inestimabile che gli Arab Strap (e successivamente anche i Death In Vegas) la remixeranno (in coda all'album). Musicalmente, è un intreccio tra strumenti acustici (chitarra martoriata, piano, pianola), nastri in reverse, piccoli trattamenti elettronici, la voce che si fa strumento. Forse l'apice interpretativo di tutta la sua carriera.

Si fa avanti “I Wanna Feel The Chill”, una canzone strana e interrogativa, quasi evocativa nel suo incedere impercettibile. Si avvertono come non mai influenze dream-pop di stampo inglese, soprattutto nella parte centrale. L'alternanza fra composizioni sature ed essenziali in termini di struttura sarà la costante di tutto il disco e in questo caso, oltre alla chitarra e a qualche rumore di sottofondo, c'è poco altro dal punto di vista strumentale, se non un piano che sale gradino per gradino, fino ad arrivare al cielo negli ultimi secondi.
Pezzo (quasi) completamente strumentale “Morning Sun”. Interessanti le sperimentazioni fra beat elettronici e pattern di piano modificato che costituiscono ulteriori indicazioni per il futuro album e per lo sviluppo del suo suono. Si percepisce tutto il talento di cui la songwriter scozzese è dotata, capace com'è di scrivere pezzi prettamente cantautoriali e usare trattamenti elettronici con grande personalità e grazia.
Altro centro assoluto è “Did I Imagine You?”, forse il pezzo più etereo e immaginifico del disco. I molteplici elementi qui presenti, fra cui beat elettronici quasi impercettibili, vari xilofoni, violini, triangoli, impreziosiscono una vera e propria gemma, sussurrata da Dot: "When I close my eyes, I can see you reach out to me. In my deepest dream, I can hear you call out to me [...] Now and then it seems, I can hear you climb the stairs. Opening the door, I realise you're not there".
Scorrono poi le altrettanto speciali (ognuna per un motivo diverso) “Mo'Pop”, sbarazzina e solare, “Alpha Female”, malinconica e sofferente, “In Winter Still”, gelida e cattiva. Da segnalare anche l’impronta cantautorale di “In Winter Still”, pervasa da un grande fascino melodico.
In conclusione, come detto, l'estroso remix di “Message Personel” da parte degli Arab Strap, che ne esaspera la componente improvvisativa e tribale, dando vita a una sorta di pop sciamanico.

Da Afterglow saranno estratti ben quattro singoli: “Close Your Eyes”, “Colour Me”, “Message Personel” e “Mo’Pop”. Non mancano anche degli inediti, come “Mr. Voyeur” (una geniale elettro-pop song), che conducono sempre di più verso una svolta elettronica. Nel singolo successivo, figura il già segnalato “scampolo” della ghost-track degli One Dove, intitolata “Blind”, qui in veste fortemente rivisitata, con una registrazione migliore. “Messaggi Personel” include il bellissimo remix dei Death In Vegas della traccia omonima, “Mo’Pop” include un altro inedito, “Melted”, una schizofrenia che sa di cortocircuito digitale per quanto risulta agitata e scomposta.

Dopo un anno passato a girare per il mondo presentando il disco, e componendo nuovo materiale, nel 2002 Dot si riaffaccia al mercato con alcuni singoli che anticipano l’arrivo di una nuova uscita discografica. Escono, in ordine cronologico, “Remixes” (Mantra Recordings), “Sampler” (Beggars Banquet), due versioni di “Strung Out” e “Substance”.
Il cambiamento è forte e immediatamente intuibile. Intanto, è doveroso sottolineare la collaborazione con due mostri sacri come Dave Fridmann (geniale produttore che ha contribuito non poco ai successi di Mercury Rev e Mogwai), e Keith Tenniswood, membro degli elettronici Two Lone Swordsmen. I toni malinconici e prettamente acustici di Afterglow lasciano il posto a impressioni elettroniche di stampo quasi techno, con battiti sotterranei e molto duri. A partire da “Remixes” e “Sampler” si percepisce la variazione di approccio. Nel primo, c'è il remix di “We’re Only Science” di Slam e due remix di “I Think I Love You” di Radioinactive Man, molto percussivi e un po’ stranianti. Vaganti fra le varie versioni dei singoli successivi, due remix al fulmicotone, per la precisione quello di “Substance” di Felix Da Housecat e quello di “I Think I Love You” del già citato Tenniswood. Da segnalare anche l’inedito “Lo-Fi Love Song”, una scarna ballata dal testo romantico solcata da effetti robotici molto colorati.

Nello stesso anno, esce il nuovo album, We Are Science, che segna un'ulteriore svolta. Le chitarre sono quasi del tutto scomparse, per fare posto a un mare di synth e strumenti elettronici e il groove viene sostenuto praticamente sempre da una drum-machine. Un cambiamento con il senno di poi non così eclatante, visto che di elettronica ce n'era in abbondanza già nella precedente prova. Quel che non cambia è la qualità dell’artista scozzese, che forgia un lavoro fortemente personale e molto ben congegnato.
I testi sono sempre molto introspettivi ed ermetici. Onnipresente la solita malinconia che non dà tregua e ancora una volta i momenti di dolore ci accalappiano il cuore.
L'iniziale “We're Only Science” è un efficace anthem techno-pop, con l’ombroso ritmo sostenuto che si innesta dall'inizio, attorniato poi da un turbine di synth colorati. La frase "We're Only Science" viene ripetuta ossessivamente, alimentando un clima quasi apocalittico.
Si fa strada, con grande piglio melodico, la successiva “Substance”, molto languida e sinuosa. I ricami elettronici non sono mai banali, né scontati. la gommosità dei synth riporta a certo synth-pop degli anni 80, soprattutto ai Soft Cell, dei quali Dot deve aver ascoltato sicuramente tutti gli album. Il groove si fa via via più movimentato, sempre solcato dalla voce che non cambia di una virgola, come in passato bellissima ed estetizzante, per nulla penalizzata dal cambio delle atmosfere che la contornano.
”You Can Be Replaced” si presenta meno sintetica e riprende il discorso lasciato in sospeso dall'album precedente, sempre con l'apporto di una forte componente di non-sense lirico. Un testo ammalato e ammorbante, come testimoniano queste frasi: "You can be replaced. You've got the power. To give your cluelessness a voice. Saying loads of nothing. With a lot of noise. Walk down the street. Resentment in your arms. There's something free in us. That you despise. We're the survivors. We are your rivals".

”Performance” è un down-tempo fuori tempo massimo, bello ed evocativo, strutturato su qualche giro azzeccato di synth e una voce che sovente regala attimi di disincanto immaginifico. Forse il pezzo più disteso e silenzioso della sua produzione, debitore sia di certa ambient isolazionista, sia del trip-hop strumentale. Sembra, invece, una canzone uscita da Afterglow la successiva “Wishing Stone”. Un folk-pop screziato da note di xilofono, rasoiate taglienti e liriche incantate: "You tore my skin, but I didn't bleed. Tried to steal my thoughts, from in my sleep".
Avvenente il dark-pop elettronico che si dipana gradualmente in “Make It Happen”, vicino a certe suggestioni della new wave in voga negli 80. La voce di Dot, sapientemente trattata, diviene ancor più solenne e piena; l'effetto finale è strabiliante, anche se il testo è la semplice ripetizione di qualche frase (“How does it feel to know that this is real”). Addirittura accenni glitch applicati al pop compaiono in “Strung Out” (vaghi ricordi dagli Slowdive di "Souvlaki"), rumorini che si relegano in sottofondo al marasma percussionistico questa volta autentico, inscenato da un batterista forsennato (J. Ament). In forte ascesa l'uso dello xilofono, in questo caso tintinnante e puntiglioso. L'accordo di chitarra ripetuto ciclicamente è la base da cui Dot spicca il volo con le sue fiabe. Incredibilmente ballabile la canzone da club del disco (esclusi i remix finali), “I Think I Love You”. Synth bastardissimi e taglienti affettano in mille briciole la voce che gorgoglia la solita frase per tutti i cinque minuti (“I Think I Love You”), i battiti digitali sono un rimbombo che scuote le viscere. Un pezzo così minimale e ossessionante lascia residui pericolosi. Si ritorna alle origini, invece, con la ballata notturna “Hex”, e si conclude idealmente il disco con un clone più corto di quel capolavoro che era “Message Personel” in “Lover”.
In una versione successiva dell’album vengono posti in coda, due remix detonanti. Prima Felix da Housecat lancia in orbita un techno-pop da mille giri in autostrada con il disfacimento di “Substance,” poi Slam si cimenta in una techno profonda e minimale con la vivisezione di “We're Only Science”. Un epilogo di grande impatto.

Poco dopo l’uscita del disco, Dot si incammina, a cavallo fra 2002 e 2003, in un tour mondiale al fianco dei Massive Attack, con i quali compone anche alcune canzoni, fra cui la bella “Aftersun”. Dopo questa esperienza, l’artista scozzese si dedica a un'assidua collaborazione con il chiacchierato Pete Doherty, insieme al quale prende parte a un tour acustico chiamato “Bilo Albino”. Questa vicinanza artistica porta Dorothy a comporre diverse canzoni con Pete (bella l’unica reperibile “I Wanna Break Your Hearth”), fino a diventare un membro stabile dei Babyshambles e suonare nello “Stone Me What A Life” tour. La Allison figura anche in alcune sessioni di registrazione dei Libertines, dove suona il glockenspiel.

Nell’anno 2004 degna di nota la collaborazione con il già citato Slam, che porta alla composizione di “Kill The Pain”. Presente in vari dischi dello stesso Slam, il pezzo riscuote un discreto successo, e spinge alla pubblicazione di un 12” di remix dello stesso. Per la precisione, si tratta di tre mix e di un episodio inedito, intitolato “Bright Lights Fading”, prodotto da Alex Smoke.
Lo stile elettronico vira versa una techno-house molto minimale, splendidamente compiuta e mai sopra le righe. Le scaglie vocali innestate negli incastri electro cesellano vari episodi che sono un gran bel sentire per chi ama certe cose elettroniche dal ritmo sostenuto; il talento di Slam nel mettere insieme un groove si sposa perfettamente alla voce di Dorothy, che si cala perfettamente in questo nuovo contesto, dal fascino più prorompente che aggraziato.

Sul finire del 2004, Dot torna in studio per registrare nuovo materiale personale, lasciando da parte per il momento le numerose collaborazioni che l’hanno vista protagonista. Infatti, dopo qualche anno di pausa (e di composizioni) esce l’Ep Beneath The Ivy, pubblicato il 18 agosto 2006, prodotto da Tim Simenon e Geoff Smith, masterizzato da Kramer ( già al fianco di Low, Galaxie 500 e Daniel Johnston).
Le tre canzoni presenti in questo Ep sono un ritorno alle atmosfere più scheletriche di Afterglow, addirittura più essenziali, senza arrangiamenti né fronzoli aggiuntivi. “Quicksand” è una splendida ballata folk quasi esclusivamente composta da un duetto voce-chitarra, solcato sovente da qualche colpo di xilofono. La successiva “Blade Of Words”, invece, si attesta su certi ritmi trip-hop mai sperimentati in precedenza dall’artista scozzese. La chitarra dai sapori western si accoppia con un groove a bassa battuta, contorniato da sciabordii metallici, provenienti da feedback chitarristici. La voce di Dot risulta più matura, in alcuni frangenti più roca e scorticata, forse è l’effetto del tempo che passa, ma non certo un segno di decadenza espressiva. “Paper Rose” ricalca la prima traccia, aumentando il tasso emotivo. Chitarra, parole, armonica, cori in sottofondo, qualche piccola nota di xilofono, una grande presenza della voce che straccia i sensi e li conduce in un limbo fatto di sensazioni indimenticabili e vibrazioni pulsanti.

Sempre nello stesso periodo, segnaliamo, per puro dovere di cronaca, il duetto con Bobby Gillespie (il cantante dei Primal Scream) nella canzone "Up Against the Wall Red Neck Mother", purtroppo ancora inedita e introvabile.

Durante la parte finale del 2006 e l’inizio del 2007 Dot si compone e registra il suo nuovo album, intolato “Exaltation Of Larks”. Una manciata canzoni intense, di stampo autobiografico, ancora con il leggendario produttore Kramer, per un sodalizio quantomai affiatato.
Influenzata dai toni scarni del tardo Gene Clark, l'artista scozzese scava ancora una volta in profondità tra le pieghe dell'anima. Ne scaturiscono canzoni fortemente improntate alla melodia, guidate dalla sapiente mano di Kramer, che si occupa anche dell’arrangiamento. Una musica che, in perenne stato di estasi, raggiunge una forma immaginifica, racchiusa nel suo bozzolo emozionale, repressa e implosa. Una storia esile, ma con diverse chiavi di lettura musicale, un andare svagato che sembra rimandare all’infinito il tema principale, un’intensa nostalgia del passato, il ricordo ricorrente di suoni e colori. Sogni di giovinezza e illusioni perdute, racconti sfuggenti, come un’ombra che si materializza di colpo sul suolo.

La struttura che sostiene tali stille di malinconia risulta a conti fatti molto essenziale. Spesso e volentieri ci troviamo ad ascoltare solamente la voce di Dorothy e la sua chitarra, coadiuvata da alcuni strumenti di contorno. Piano, chitarra acustica ed elettrica, mandolino, banjo, qualche nota di piano e il violino. Poco altro, ad esclusione di qualche percussione sporadica. Una scelta dettata dal lavoro di introspezione personale, che ha portato Dot a cesellare canzoni dall’impronta prettamente cantautorale e intimista. Canzoni che non prendono un via ben precisa, diramandosi verso direzioni molteplici. Se a prima vista sembra di ammirare un puro album di folk-pop, ci accorgeremo che una malcelata anima soul emerge con forza, per poi mescolarsi con pregevoli screziature country.
Si inizia con “Allelujah” e la magia è subito intensa. Flussi d’aria scalpitante e voci di bambini sono il preludio a una litania prolungata ed estenuante. Già da questa traccia tornano alla mente le atmosfere di Afterglow, affiora una sorta di misticità e la voce è avvolta da un manto seducente. Piccole gocce di piano, una chitarra desolata, sporadici lamenti in lontananza. Sembra di sentire un misto fra “Message Personel” e “Tomorrow Never Comes”. La deriva angelica finale è puro piacere.
Con grande afflato e pathos inizia “Thief Of Me”, una stupenda canzone comandata dal violino, in odore di ispirazione miracolosa. Il ritmo si fa meno risucchiato ma svolto, srotolato, sviluppato. Forti dosi di melodia, con l’aggiunta di un banjo in grande evidenza. Scaglie del passato che tornano prepotenti, quindi. Fantasmi rinchiusi nelle parti più recondite della memoria che riprendono corpo. Quasi al limite della psichedelia più onirica, gli ultimi attimi, possiedono una fascino sinistro.
Puro folk vocale (Joni Mitchell è elencata fra le sue influenze) in “Sunset”. Le sue parole, semplici accordi di chitarra, attimi di estasi, folate di organo. Minuscoli trattamenti elettronici si fanno notare a un ascolto approfondito: impercettibili loop sulle note, schizzi digitali in sottofondo che paiono uno stormo di volatili cantanti. La successiva “In Deep Water” si fa notare sia per la sua ricchezza strumentale (banjo, mandolino, chitarra, percussioni di vario tipo), sia per le evoluzioni vocali di Dorothy. Il primo dato mette in evidenza un’attenzione quasi maniacale per l’arrangiamento mai sopra le righe: nonostante la ricchezza, non c’è mai un alito di sovrabbondanza. Nel secondo caso, siamo davanti a una delle interpretazioni più toccanti della sua carriera. Non un canto usuale, ma cambi continui di tonalità, impostazione e distensione. Quando questi due elementi raggiungono una coesione perfetta, è un puro incanto.
Lacrime di mestizia si fanno largo nella toccante “You Dropped Your Soul”, bella da ferire l'anima; emozioni sconosciute provengono dalla inquieta “M’Aidez Call”, altra gemma cantautorale. “Tall Flowers” raccoglie a piene mani da Afterglow, ribadendo la sua grande passione per la cantante oscura per eccellenza, Nico. Toni da colonna sonora horror in sottofondo, scarni accordi di chitarra, voce riverberata (effetto utilizzato da sempre), qualche sparuta nota di piano. Rare schiarite, una liberazione dalle nuvole opprimenti, si concretizzano con l’esasperazione del ritmo, che scandisce una sorta di marcetta sotterranea.
Giunge a questo punto, a parere di chi scrive, la canzone più bella dell’album. Già presente nell’Ep dell’anno precedente, intitolato Beneath The Ivy, “Quicksand” sfoggia alchimie che sanno di miracolo. Sabbie mobili che inghiottono con lentezza estenuante la vita, i ricordi, gli amori, i preziosi scampoli con cui animare gli attimi più insignificanti dell'esistenza. Cori in sottofondo, voci dall’Aldilà, un andamento strascicato. Intorno al minuto 2'30'' si inserisce una batteria che mette in piedi un minimo di ritmo pur sempre disciolto; la voce di Dorothy in questo frangente sfoga senza limiti la sua bellezza, con punte di grazia cristallina da lasciar senza fiato: "Look At This, Now”, ripete. Noi, rimaniamo qui ad ascoltare, e ammirare, senza avere la forza di reagire.
“Shivering”, introducendo la parte finale del disco, attinge da ogni episodio precedente, riuscendo a mettere a segno un altro centro. I filamenti rumorosi di violino si rivelano molto funzionali, le percussioni hanno un sapore tribale, la voce finale, filtrata con un effetto radiofonico, dona prestigio e incanto.
L’ultima traccia, “The Latitude And Longitude Of Mistery” (titolo stupendo), è un commiato felice: i continui cambi di ritmo, la grande varietà strumentale, il rullante mai domo sono soltanto alcune delle particolarità che permettono di dire la parola fine senza il cuore in gola. Da ricordare e custodire il finale strumentale, progressivamente più silenzioso, con i secondi che scorrono, si spegne come una fiamma consuma una candela.

Se il tempo - cinque anni per l’esattezza - permette di incamerare idee, pensieri e sensazioni; elaborarle e metterle nero su bianco, il caso di Exaltation Of Larks è un esempio scintillante di questa teoria. Cinque anni confusi, passati in vari lidi, consumati con fatica e impegno. Ciò che ne risulta è pugno di canzoni che strappano applausi, schiantano il cuore, donano silenziosi brividi per tutto il corpo.

Si ringrazia Mauro Roma per i preziosi contributi.

Dot Allison

Discografia

ONE DOVE
Fallen (Single, Soma Quality Recordings, 1991)

7

Transient Truth (Single, Boy's Own Recordings, 1992)

7

Breakdown (Single, Boy's Own Recordings, 1993)

7,5

Morning Dove White (Album, Boy's Own Recordings, 1993)

8

With Love (Single, Boy's Own Recordings, 1993)

7

Why Don't You Take Me (Single, Boy's Own Recordings, 1993)

7


DOT ALLISON
Afterglow (Album, Heavenly, 1999)

8,5

Close Your Eyes (Single, Heavenly, 1999)

7

Colour Me (Single, Arista, 1999)

7

Message Personel (Single, Heavenly, 1999)

7,5

Mo'Pop (Single, Heavenly, 1999)

6,5

Remixes (Ep, Mantra Recordings, 2002)

7

Sampler (Ep, Beggars Banquet, 2002)

6,5

Strung Out (Single, Mantra Recordings, 2002)

7

Substance (Single, Mantra Recordings, 2002)

6,5

We Are Science (Album, Mantra Recordings, 2002)

8

Kill The Pain (Marc Houle Remixes) (EP, Soma Quality Recordings, 2005)

7

Beneath The Ivy (Ep, Universal Digital, 2006)

7,5

Exaltation Of Larks (Album, Cooking Vinyl, 2007)

8

Pietra miliare
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