I think I finally understand
The way a broken arm can hate the hand
The way a farmer hates his crop
The way a lawyer hates the honest cop
"Broken Arm"
Chissà se Philip Price,
frontman dei Winterpills, ha mai pensato alla propria musica "nel modo in cui il contadino odia il proprio raccolto", o se sia contento della risonanza solo locale della sua musica, un prodotto DOP da portare alla grande fiera del South By Southwest una volta all'anno, in mezzo a mille altri, per poi tornare nella sua Northampton, Massachussetts, a suonare nel liceo locale con gli studenti, a fare da
supporting act a gente ormai più giovane di lui.
Le canzoni di Price, però, parlano da sole della necessità di essere scritte, di quanto di sé venga investito in una musica nella quale l'essenziale è l'obiettivo principe, la progressiva spoliazione del proprio
sound perché la melodia prenda il sopravvento. Il repertorio della band è infatti composto di grandi brani, dall'immediata familiarità, dagli intrecci tra gli strumenti e le voci (di Price e Flora Reed, la tastierista) arrangiati fino alla perfezione, fino a fondersi in un unico fascio sonoro, indistinguibile. Canzoni sgrezzate fino a rilucere di nuovo dell'evidenza di un sentimento che potrebbe essere solo pensata da tante altre band.
Una semplicità che può essere facilmente confusa, travisata, in un'epoca in cui è più facile campionare un'orchestra di cento elementi sul proprio pc che lavorare su un pezzo sulla propria chitarra. I brani dei Winterpills, soprattutto all'inizio, sono composti di ingredienti fondamentali: la chitarra solista di Dennis Crommett appare con misura, intercalandosi nelle pieghe, negli anfratti delle canzoni di Price, come un pensiero che piano piano si arrotonda e si fa movimento, uscendo da sé, nella stanza spoglia ma piena di dettagli che rappresenta l'arredamento della musica dei Winterpills.
Questi ultimi nascono, manco a dirlo, nell'inverno del 2004. Phlip Price aveva già la sua esperienza di cantautore e musicista in una band power-pop, dalla quale si sentiva progressivamente alienato, tanto da lasciarla nel 2002 e intraprendere una frustrante e frustrata carriera solista. Finché trova in Flora Reed, Dennis Crommett e Dave Hower (il batterista) le persone giuste per suonare le canzoni che risuonano in lui quel momento, che sorgono dagli improvvisi confronti con la morte, in primo luogo del padre. "Pillole per l'inverno", sono palliativi forse quei mesi passati a suonare insieme, senza neanche rendersi conto, forse, di quanto stanno creando, per loro e per gli ascoltatori che li attendono, fuori da quella sala prove del Massachussetts.
Un fascio di luce nel buio Forse proprio per questo le canzoni che fuoriescono da questo anno di sessioni nell'esordio omonimo hanno in sè una malinconia e una disillusione che faticosamente riemergono alla luce del sole. Gli altri membri della band sono vere e proprie stampelle, che sorreggono e muovono l'ispirazione di Price verso un'espressione a tutto tondo. Ancora legato a stilemi di contrizione, di rabbia ipodermica, che vengono dai 90 (si veda "Pills For Sara", con un ritornello alla
Guided By Voices),
Winterpills è però un disco che sa già superarli in nome del grande artigianato pop della band.
"Cranky", ad esempio, una delle canzoni più belle del disco, è, per più di metà, puro slow-core, ovattato e straziante alla maniera di
Sophia e
Carissa's Wierd, ma sa improvvisamente involarsi e dissolvere la tensione - espressa magistralmente con l'acustica improvvisamente percossa e non più accarezzata - con un intermezzo
beatlesiano (espediente di straniamento alla
Gibbard). A seguire viene anche l'immenso
drive acustico di "Laughing", il suo dispiegare
uptempo di sensazioni frizzanti, rutilanti e vitali: un brano che esemplifica sopra ogni altro l'affiatamento espressivo tra i membri della band, la perfetta complementarietà degli stili di esecuzione ad esempio del teso Hower (grande anche in "Pills For Sara") e del sommesso, quasi subliminale Crommett.
È insomma il gusto melodico a dare una valvola di sfogo ai rivolgimenti interiori - quelli che hanno attratto riferimenti a
Elliott Smith - di canzoni come "Letter To A Friend In Jail", che pare più una richiesta di salvezza che un conforto, fino a quando si comprende che la prigione di cui si parla non è che il luogo di un rapporto ormai spento:
The warden can't forgive our midnight kiss.
He doesn't know it's me that's sending this.
There's a file baked into this tart,
But it won't cut through the cell bars in your heart.
da "Letter To A Friend In Jail"

Completa
Winterpills l'interazione vocale tra Price e la Reed, in una fusione che riporta ai tempi di
Crosby, Stills e Nash ("Looking Down", l'apparente semplicità di "A Benediction"). Fatale nel dolcissimo country-pop di "Portrait", uno dei migliori brani del disco (per delicatezza e trasporto ricorda gli Innocence Mission), nel quale Crommett prende inaspettatamente le redini, con un grande assolo nel bel mezzo del brano, le cui vibrazioni emotive sono perfettamente scandite da Hower.
"Sofisticato", "commovente", "gravido di momenti di pura bellezza", si sprecano i superlativi della stampa per questo esordio, e in effetti qualche briciola di popolarità cadrà dal tavolo più grande, con un'entrata in Top 100 negli album più scaricati su Amazon e qualche sessione radiofonica, insieme a un'apparizione sulla Weekend Edition di NPR. Quel tanto che basta per tirare avanti, insomma, con la chimera di poter fare di una passione un lavoro vero e proprio.
È forse in questo stato d'animo che si arriva, due anni più tardi, a
The Light Divides.
Queste canzoni erano fantasmi quando arrivarono per la prima volta. Diventarono carne e sangue in studio, e poi ancora fantasmi, solo ancora più traslucidi. Stavo pensando a come, nel buio, siamo tutti un solo evento non rivelato, un miasma. È solo quando siamo colpiti dalla luce che siamo separati. In un certo senso, forse questa raccolta di canzoni è il mio modo di maledire la luce e, nel bene e nel male, evitare di accendere candele.
(Philip Price)
Se c'era qualcosa di solo promesso, e non avverato, in
Winterpills, in questo disco la musica del gruppo raggiunge pienamente la sua calibrazione, l'espressione reale di ciò che prima era solo potenza - e intuizione. La fusione tra
Neil Young, il suo sciamanesimo country, il pop dei
Fleetwood Mac e le vibrazioni "alt" che guardano ai 90 di "Shameful" condensa in due minuti e mezzo ciò che i Winterpills realizzano in
The Light Divides, con incredibile naturalezza ed essenzialità.
Quello che era l'appena sbocciato arpeggio di "A Benediction" si libra con nettezza in "Handkerchiefs", con una grande chiusura strumentale. È grazie appunto al lavoro della band che le canzoni di Price risalgono dal pozzo nero dal quale la creatività del cantautore trae energia (si veda il trionfale valzer di "A Ransom"), accompagnandolo in una convalescenza dove tutto, attraverso una nota di flauto o un passaggio di organetto, diventa colorato e accogliente. Oppure affilando le emozioni di Price, trasformandole in un flusso di coscienza nel quale scaricare le proprie ansie, in una vera e propria disintossicazione.
È il caso di una delle canzoni più conosciute del gruppo, "Broken Arm", in cui l'alienazione Camus-iana del braccio per la propria mano, di un contadino per il proprio raccolto si riversa sull'ascoltatore, vi si conficca con l'urgenza di questo dialogo disperato e rabbioso con entità superiori ("The decider/says I'm a fighter/but I can't feel my/fucking legs"), espresso con impotente e liberatoria forza vitale dal battito
uptempo di Hower e dal
riff new new wave di Crommett.
The Light Divides è tutt'altro, infatti, che un album introverso, come dimostrato dalla marcetta
beatlesiana di "Angels Fall", dalla lettera d'amore non consegnata del country-pop di "July". Come scrive lo scrittore Jonathan Lethem del disco, "è come se i Winterpills avessero portato alla luce le canzoni che stavi già canticchiando tra te e te, senza saperlo".
Ogni pezzo di questo album è, in effetti, non solo un colpo al cuore (in particolare nella grandiosa, sommessamente penetrante "Lay Your Heartbreak"), ma una costruzione melodica difficile da dimenticare, senza un arrangiamento che non sia funzionale a farla risaltare. Senza negarsi qualche reinvenzione, come nei
Wilco di "I Bear Witness". In questo il disco si candida veramente a essere uno dei grandi classici nascosti dell'Americana degli anni 2000.
Nuovi, fragili orizzonti
Gestazione più complessa ha il seguente
Central Chambers: negli anni che lo precedono - tre dopo
The Light Divides - a Price viene diagnosticato un disturbo cardiaco che, pur non compromettendone la salute, scuote la sua ispirazione improntando anche questo lavoro verso i temi della fragilità della vita, animata da un "filo blu segreto" ("Secret Blue Thread").
Musicalmente, il disco testimonia una volontà di Price di iniziare un percorso di progressiva ritaratura del proprio
sound, spaziando da bozzetti lo-fi alla
Iron & Wine ("Everything") ad arricchimenti significativi dei propri arrangiamenti, che si avvalgono inoltre di una produzione assai più consistente (su tutte la hit "Take Away The Words", che raggiunse anche le scene di Grey's Anatomy).

Ancora una volta la band non delude nel costruire un alt-country raffinato e piacevole, come quello di "Beesting" e di "You Don't Love Me Yet", che si avvale addirittura di armonizzazioni multiple; ma, un po' per un'intensità espressiva che viene meno, un po' per l'irresolutezza delle soluzioni e degli stili prescelti (si torna verso i 90 e verso sonorità più scarne in "Gentleman Farmer", che nuovamente narra la storia di un contadino che muore di infarto dopo aver perso la propria fattoria),
Central Chambers rappresenta inequivocabilmente un disco cosiddetto "di transizione" nella produzione dei Winterpills.
La chitarra di Price pare ancora restìa ad allontanarsi dagli stilemi
younghiani che l'hanno contraddistinta nei primi dischi della band, e il risultato è un'ulteriore perdita di personalità del disco, che non ha dalla sua un'ispirazione tangibile.
L'ambizione sottintesa a
Central Chambers trova invece pieno compimento nel seguente Ep,
Tuxedo Of Ashes, che lo stesso Price descrive come un "matrimonio combinato tra un'epica verbosa e un modesto haiku". La band recupera il respiro cameristico, la poesia bucolica e riflessiva dei propri pezzi, pur mutando completamente i propri arrangiamenti, usufruendo dei contributi del violoncello di Melissa Nelson nella sottilmente disturbante "Feed The Spider".
La volontà di espandere, ancora una volta, i propri confini espressivi porta, in
Tuxedo Of Ashes, la band a investigare territori sonori ed espressivi assai meno intuitivi che in passato, adottando ad esempio la forma del mantra in "Hallway (The Top Of The Velvety Stairs)", o costruendo progressioni corali su semplici temi melodici circolari, come nella
title track. La transizione rispetto alle composizioni più riconoscibilmente Price-iane ("The Ballad Of The Anxious Decoder") si fa qui più fluida, e più comprensibile l'obiettivo di ampliare il proprio spettro - un po' anche per mascherare un certo scadimento dell'immediatezza melodica delle canzoni di Price.
Bisogna aspettare infatti il disco per il quale
Tuxedo Of Ashes costituisce un'ideale preparazione, quell'
All My Lovely Goners che viene pubblicato nel 2012 - a ormai quattro anni dall'ultimo Lp -, perché il cantautore della band riesca a combinare le nuove aspirazioni musicali della band con delle canzoni finalmente ispirate dal punto di vista melodico - che potrebbero insomma esistere ( e spesso lo fanno direttamente sul disco) anche senza un corredo strumentale così greve.
È il caso dell'ottima "Amazing Sun", quasi fin troppo accattivante e solare, appunto, rispetto all'usuale produzione Winterpills, dell'idillio alla
Simon And Garfunkel di "Feather Blue" del ruspante alt-country di "Rogue Highway" e dei "
Rumours" di "Dying Star". Un rassegnato e, tutto sommato, più spento agnosticismo naturalista permea tracce come "The Sun Is Alone" e "October", sia nei temi che negli arrangiamenti (bella la vibrante coda acustica), ma è la persistenza di un dialogo interiore, testimoniato da "Minxy", e di una inconfessata e indefinita aspirazione ("Sunspot (Ruins)") a confermare una rifocalizzazione dell'ispirazione di Price verso i temi che gli appartengono (si veda anche la bella "Pretty Girls") - oltre a un ritorno verso le qualità più prettamente pop delle sue composizioni.
Insomma un disco che mette da parte ponderosità e anche un certo orgoglio minimalista, per lasciarsi ascoltare, per lasciare che l'ascoltatore si rifocilli gustandosi le rifiniture della trama perfettamente intessuta delle sue tracce.
È più che altro per dovere di cronaca che va segnalata l'uscita successiva dei Winterpills, a quattro anni dall’ultimo inedito, e due dalla racccolta di cover Echolalia. Cattivi auspici o meno, questi anni di attesa producono al massimo il tanto paventato “ritorno alle origini” – come spesso accade, soprattutto sulla carta.
Il più secco e malinconico folk-pop di Elliott Smith (“The Swimmers And The Drowned”), che riporta al recentemente ristampato esordio omonimo, e in generale un’atmosfera più raccolta (“Diary, Reconstructed”) o più “integra” dal punto di vista alternativo (anche nel power-pop di “Celia Johnson”) e meno solare che nel precedente non mantengono le promesse, a parte ripetere il già detto, i chiaroscuri, il sapore narrativo dei brani di Philip Price.
Potrà soddisfare in modo fugace i cultori del cantautorato americano alternativo anni 90, con le sue ballatone sghembe (“Wanderer White”), ma nella sostanza c’è soltanto una pallida ombra di quanto già fatto.