Chi sta dietro al progetto denominato Iron & Wine è un cantautore di nome Samuel Beam, del South Carolina. Il suo primo Lp ("The Creek Drank The Cradle"; 2002, Subpop) lo mette in luce come folksinger dall'incondizionata fede per gli arrangiamenti semplici e essenziali, in perfetto accordo tanto con il Nick Drake scheletrico di "Pink Moon" e con le elegie bucoliche di Donovan, quanto - più recentemente - con gli ombrosi e visionari viottoli musicati di Smog. Quello che ne esce è una buona miscela di anime poetiche illustri, a solidificare un impianto estetico già di per sé loser, o lo-fi che dir si voglia, a edificare fortini di piccole disperazioni quotidiane fatte di poverismo musicale e di cantilene bisbigliate e sonnolente. Le sue sono storielle poco ambiziose (e ancor meno appariscenti), ma cantate e suonate con anima e chitarra, e poco altro. Il successivo Ep "The Sea and The Rhythm" (2003, Subpop) conferma questa impostazione cantautoriale votata alla sublimazione della forma canzone in arpeggi trasfigurati e sognanti, luccicanti e pregni di docile tristezza.
Con un ritmo di un'uscita discografica all'anno, il Nostro si è fino ad ora confermato artista coerente, che sa il fatto suo, che ha idee abbastanza solide in saccoccia. L'ultimo Lp, "Our Endless Numbered Days" (2004, Subpop), sembra ripetere il suo personale viaggio artistico all'interno della song-form. Ma sono necessarie alcune precisazioni. Beam con quest'ultima nuova uscita dimostra di volersi concentrare non solamente sui microcosmi chitarristici, ma anche sui linguaggi complessivi, sulle strutture della lunga distanza. Si parte con una sorta di blues per pizzicati mercuriali e notturni e chitarra lamentosa, solo fugacemente innalzato attraverso zone dal respiro più ampio ("On Your Wings"), e si prosegue con un pezzo dalle atmosfere distese e sognanti, abbagliato dalla luce del sole più terso e benevolo, in cui al solo arpeggio di chitarra è affidato il compito di condurre il gioco ("Naked As We Came", cantato in duetto con la sorella Sara). Questa diade di tipi-canzone viene ripetuta per (quasi) tutta la durata del disco alla stessa stregua di un tassello di trama decorativa, conferendogli un apparato strutturale tanto programmatico e dialogico quanto prevedibile e rassicurante.
A ogni lamentazione blues viene fatta contrapporre una canzone intimista dall'impianto armonico donovaniano: un ossimoro, se vogliamo, che riprende idealmente quello del titolo del disco (cfr). Sono anche e soprattutto le anime poetiche del cantautore ad alternarsi vicendevolmente, riprendendo un conflitto interiore e artistico che è stato appannaggio dell'ultimo Drake (ma qui è meno complesso e sofferto) e che ha le sembianze del Barrett più scanzonato (ma qui c'è meno inventiva).
Quello che interessa è notare l'andamento di quest'ultima dimensione, quella delle canzoni distese in tonalità maggiore. A volte sembrano l'una la continuazione dell'altra (solo interrotta dalle parentesi pensose), a volte sembrano voler andare oltre rispetto al discorso poetico-musicale intavolato dalla precedente, vuoi per la sottile brezza di gaio divertimento che in parte le attraversa ("Love and Some Verses"), vuoi per le atmosfere sempre più fragili ("Fever Dream"), vuoi per la catarsi chitarristica, irresistibile come un canto di Musa ("Each Coming Night") e claustrofobica come una trance passeggera ("Sunset Soon Forget").
"Sodom, South Georgia" è un country pop scandito e in andamento di marcetta con echi Palace Brothers (ma dalla buona efficacia melodica), ma è più che altro il brano che sancisce la prevalenza degli umori sereni, anche se fragili, sull'intera opera. La struttura binaria del disco sembra lasciar posto finalmente a una certa quale risoluzione del piccolo conflitto in fieri. "Passing Afternoon", il pezzo a cui è affidata la chiusa, è una dolce filastrocca che rassicura pacatamente (ma a tratti anche in modo febbrile e appassionato) i cuori fragili in ascolto.
Disco dalle buone intuizioni melodiche, dall'impeccabile produzione. Ma è anche il disco per i novizi del misterioso mondo del cantautorato americano, così multiforme e liricamente caleidoscopico. Quello che Beam cerca di dirci - e di darci - non è che un piccolo e poco pretenzioso compendio di queste anime artistiche tormentate. Forse una loro concertazione in un ideale manuale di equilibrismo interiore (ma in ogni caso risolto secondo la struttura elementare di cui sopra), in formato tascabile. Ma quanto ammaliamento in questi scarni e teneri dialoghi tra chitarra acustica cristallina e voce dal registro basso e accorato, quante piccole dolci emozioni in un solo, insignificante disco.
19/12/2006