Dopo la loro partecipazione all'Estragon Summer Festival
bolognese di quest'estate, ecco che anche in Italia si comincia a parlare dei
Quit Your Dayjob. Strano che nessuno se ne fosse ancora accorto, dal momento che
all'estero, tra gli Usa, il Regno Unito e la loro nativa Svezia, qualcuno ha già
provato ad affibbiare loro il titolo di "nuovi Devo". In effetti il paragone è abbastanza
immediato, basta ascoltare qualcosa del loro primo, omonimo, Ep (2004), ad
esempio quella "Look! A Dollar" che ha stuzzicato l'appetito di tutto un
pubblico con il suo appeal irresistibile e demenziale.
Ebbene,
finalmente sono giunti al primo album, nella maniera a loro più congeniale, per
certi versi la più ovvia: diciotto brani lunghi non più di due minuti, in cui si
concentrano riff folli ed esasperanti, intessuti sia dalla chitarra che dal
synth, per un'esperienza comica e devastante al tempo stesso.
Peccato che
alla lunga (per modo di dire, si tratta di mezz'ora scarsa), il feeling
concentrato nelle poche tracce dell'extended play tenda a disperdersi un poco
(soprattutto verso la fine può risultare un po' pesante), ma comunque "Sweden,
We Got A Problem" si può definire una prova all'altezza delle aspettative.
Si inizia con "Banzai Butterfly", introdotta da un suono in feedback che
apre presto la strada a un riff di chitarra sparato a tutta velocità: prima
ancora di capire che cosa sia successo, che cosa sia quella specie di folle
treno espresso che si trova di fronte alle nostre orecchie, ecco che già è
passato. E' il turno della title track, che sfodera un formidabile riff di synth
e ricorda nel suo cantilenante funky sghimbescio i primi Talking Heads; "Sperms Are
Germs" è un'astuta riscrittura di "Freaks Are Out" (dal loro primo Ep), mentre
"Evil Ray" potrebbe venir fuori da una session dei Velvet Underground
strafatti di eroina con alla voce un John Cale ubriaco fradicio.
Si
prosegue con "Pissing On A Panda", già nota per essere stata pubblicata come
singolo nel 2004 (e fino a poco tempo fa scaricabile gratuitamente dal sito
della band), per poi giungere alla tagliente "Brain In Vain", urlata su un riff
tanto elementare quanto efficace con un piglio degno del migliore Iggy Pop.
Le atmosfere quasi western
di "E-Bay Ghetto" sono dietro l'angolo e ricordano non poco la già citata "Look!
A Dollar" (la chitarra sembra proprio la stessa). "Man Power" è un brano
epicamente ballabile che ripete continuamente il titolo su un riff magniloquente
e pulsante, sorretto da una batteria disco ineccepibile; "Cities Suck" è una
parentesi nichilista che somiglia, ancora una volta, a "Look! A Dollar", ma in
un attimo siamo già alla godibilissima "Erase My Face", violenta invettiva su un
panorama sintetico.
Il brano con più appeal danzereccio è sicuramente
l'irresistibile "Vlado Video", una cavalcata degna di Byrne e soci in un momento
di follia, potente e goffa come un gigantesco mammut a pois gialli e rosa.
"Shemale Godzilla" sembra una gigantesca pernacchia a tutta la dark-wave, mentre "Touch+Go" è un
piccolo capolavoro, con un elementare riff rock'n'roll suonato in maniera
esasperante dal solito synth. "I Need A Tourguide For My Own Head" è piuttosto
trascurabile, mentre "Subhumanist" assume i connotati di un vero e proprio
manifesto dello stile della band, guidata da una batteria elettronica sulla
quale le divagazioni di synth, chitarra e voce (che dialoga con un coro con una
struttura che ricorda certi patchwork degli Art of Noise) si ripetono
nell'effimera e vacua eternità di un minuto e mezzo.
"2 Face" ha dalla
sua parte un ritmo tribale e un riff particolarmente brillante; conclude l'album
il feedback di "(Ove 2)", seconda parte di un simile intermezzo perso nella
successione nervosa delle tracce. Ma non finisce così: infatti i Quit Your
Dayjob vogliono avere sempre l'ultima parola, e mettono a chiudere il disco una
ghost track piuttosto inutile.
Orbene, se all'ascolto superficiale
quest'album può sembrare (e non del tutto a torto) "tutto uguale", non ci si
sarebbe potuti aspettare nulla di diverso da una band che ha già costituito un
piccolo culto, sia in patria che nella scena internazionale a cui si è
affacciata di recente. E, tutto sommato, si tratta di un buon album: speriamo
solo che la storia non finisca qui e che il gruppo trovi qualche sbocco nuovo e
inconsueto per le proprie intuizioni perché, dopo queste diciotto tracce, si può
benissimo ammettere che il loro stile sia stato espresso in lungo e in largo, e
ripercorso più volte.