Jarvis Cocker è davvero un personaggio sui generis. Da che i
Pulp si sono messi in
stand by fino a data da destinarsi, il
brit-rocker di Sheffield si è dedicato a collaborazioni estemporanee (l’ultima quella con
Charlotte Gainsbourg), ha scritto tre brani per la colonna sonora del quarto episodio cinematografico di "Harry Potter", ha indossato i panni del paladino electro sotto lo pseudonimo di Warren Spooner, realizzando assieme a
Richard Hawley il progetto Relaxed Muscle. Cinque anni di vacanza attiva, una transizione comprensibile all’indomani dello splendido poker calato dal 1994 ("His’n’Hers") al 2001 ("We Love Life", e in mezzo "Different Class" e "This Is Hardcore", non so se mi spiego), che i fan avranno seguito con la compiaciuta indulgenza da attribuire a chi ha già dato molto.
C’erano due modi per uscire nuovamente allo scoperto: richiamare i Pulp alle armi, o prodigarsi in un progetto solista. Considerati gli esiti non felicissimi, possiamo affermare che la scelta sia caduta sul male minore. Intendiamoci, non che questo "Jarvis" sia da gettare in toto, ma è altrettanto pacifico che le attese siano andate deluse, annegate in un album frammentato negli umori e schizofrenico nella sostanza. Un elemento che stona è la compassata ordinarietà: paiono lontani i tempi delle cavalcate pirotecniche di "Different Class", delle vellutate dilatazioni di "This Is Hardcore", e anche dell’impeccabile produzione di "We Love Life". Tutto, sovente, abdica in favore di ballate dagli arrangiamenti spartani, con motivi che, specie nella prima parte, cercano d’intercettare il maggior numero possibile di padiglioni auricolari sovrappensiero. E lo fanno ricordando da vicino gli approcci elettroacustici di
Paul Weller, quando non lo sgraziato piglio interpretativo di Bob Geldof. "Don't Let Him Waste Your Time" e "Black Magic" sembrano concepite per essere biascicate al pub dopo la terza pinta di birra, "Baby's Coming Back To Me" è adatta come sottofondo per una recita natalizia, mentre "I Will Kill Again" è il perfetto lento per accendini esausti.
Liquidate le dolenti note, vi sono brani che non restano come vorrebbero: non male quello di chiusura, "Quantum Theory", ma più noiosetto anziché no, così come le ballate sixties "From A To I" e "Big Julie", che partono bene per approdare però a conclusioni alquanto scontate. A latere di un discreto singolo che potrebbe persino funzionare (la "ghost track" "Running The World"), annoveriamo anche pingui parentesi degne di nota. E’ il caso dell’indie-rock di "Fat Children", sporco e tirato il giusto, ma soprattutto di "Heavy Weather", e dell’accoppiata "Disney Time" e "Tonite", che conducono a vario titolo al filone d’oro della Pulp era. Troppo poco per salvare le sorti finali, ma quanto basta per ricordarci che Jarvis le buone canzoni, grazie al cielo, le sa ancora scrivere. Peccato, ci aggiorniamo alla prossima.