Se c'è una cosa che ha inventato Donald Fagen, è quella musica interlocutoria e lounge che ha ricamato il concetto di pulizia stereotipata. Già con gli Steely Dan e Walter Becker, ha esplorato un jazz alle fragole fruibile e strepitoso, tutto intriso di proclami di raffinatezza sonora e di amore per l'ambiente sofisticato.
Con "The Nightfly" (1982) poi, primo suo album solista, quelle caratteristiche vengono estremizzate ed elevate a obbligo esclusivista: assistiamo, in pratica, allo sviluppo del concetto acid-jazz di "Aja", album del gruppo risalente a qualche anno prima.
"The Nightfly" sarà così un disco fondamentale e per l'affermazione di progetti laccati ed elitari come quelli new cool degli anni a venire (Everything But The Girl, Style Council), e per la diffusione stessa dell'acid.
Più di un decennio dopo, con "Kamakiriad" (1993), Fagen ricalca parecchi punti di contatto col precedente, anche se si ha come l'impressione di trovarsi di fronte a un mood più "sfrenato", quasi a voler fare un passo indietro verso i primi Steely Dan.
La classe resta intatta, finanche le liriche da vino e aperitivo fashion, e si comincia a intuire che, in realtà, ogni cosa dell'uomo in questione serve a completare quella che ha fatto prima, pure ad anni e anni di distanza.
Così apriamo questo "Morph The Cat", tredici anni dopo l'ultimo album, e pare di sfogliare le stesse fotografie.
Ho sempre più l'impressione che Donald Fagen, in studio, non sudi neanche una goccia, perché la sua musica è come stoppata e riverberata, oltre che fortemente regolata sulla sua stratosferica staticità.
Già in copertina si scorge quel divenire che è divenuto, con l'artista in capelli bianchi a riempire la solita, affascinante stanza cupa. Senza dubbio, è un grigio che sta benissimo col blu di "The Nightfly".
Ogni nota, quindi, è garanzia di non caduta, anche perché il rischio è praticamente pari allo zero.
Fagen è questo, il maestro della perpetuazione d'intenti e della classe sopraffina che, scovato il tesoro a suo tempo, lo sta amministrando con oculatezza. Ci ha riproposto fedelmente i suoi canoni estetici, la musica durante la chiacchiera e per l'incontro prima di mezzanotte.
C'è da dire che "Morph The Cat", in questo modo, tratteggia, nero su nero, le linee di contatto con tutta la sua produzione, proprio come indizio di quella unicità infinita della sua indole. Il punto in cui si osa, che resta quello di percettibile distacco, è senza dubbio segnato dalla melodia, più captabile e definita che nei due precedenti episodi.
Infatti, sia negli esercizi lenti ("Morph The Cat") che in quelli veloci ("H Gang"), c'è il ripiego su segmenti senza ombra, per la prima volta parte di ricordi individuabili e quasi decifrati. E anche laddove sembra prendere il sopravvento una forma di blues d'oltralpe come in "What I Do", tutto si riconduce al picco d'atmosfera in cui tutto è respirabile, dagli stacchi di chitarra e armoniche agli assoli di tastiere. In "Security Joan" si torna completamente agli Steely Dan, sia nel ritmo che nelle ansie, così come negli intermezzi di basso e negli enormi accordi di piano che delimitano il movimento.
Molto riconoscibili anche l'"uso" delle strofe in eco corale e i passaggi in bemolle, senza dimenticare il ritornello che spezza. Non risulta noioso nemmeno un lunghissimo guitar solo che, pur in distorsione, gioca sul limpido irreprensibile.
In definitiva, "Morph The Cat" è l'ennesima ricostruzione della sua carriera, con le privazioni e le aggiunte del caso, ora figlie del tempo, ora no, ma sempre meticolose nel loro essere impeccabili e pensate.
Allora si può restare estasiati in quel circondario alla "Love Boat" in cui ti immette "The Great Pagoda Of Funn", con le sue trombette turate e il suo jazz da crociera. L'inflessione sonora è al metronomo, ma è proprio l'uso geniale della prevedibilità la migliore prerogativa di Fagen, tanto da creare qui una forma insostituibile di intrattenimento.
E può scioccare pure il funk di "Brite Nitegown", parente stretto delle trovate di Quincy Jones per Michael Jackson, sempre in bilico tra bar e sale da ballo.
Non manca nulla di ciò che c'è già stato, insomma, compresa la comprensibile lunghezza di quasi tutti i pezzi, forse l'elemento fondamentale per la stesura dei suoi dilemmi.
Quest'uomo torna e ci delizia a intervalli di decenni irregolari, forse per riportare in campo la scrittura del pop impertinente, o forse per ricordarci che i dischi si fanno quando si trovano le perle.
29/03/2006