Se già conoscevate Nathan Fake era per la sua esigua ma già formidabile produzione house, che qualcuno, forzando un po’, aveva inserito nel filone della trance inglese del quale, si era detto, questo ventiduenne da Norfolk era il salvatore.
Se tutto di lui avete sempre ignorato, vi sarà comunque arrivato all’orecchio il remix con cui James Holden (proprietario della Border Community che lo pubblica) ha shakerato e dopato la sua “The Sky Was Pink”. E se l’originale è rimasto praticamente inascoltato, il remix ha letteralmente spopolato, divenendo il titolo più venduto di sempre da Phonica: se mettete dischi e siete passati da Londra, sapete di cosa sto parlando.
Ma il ragazzo ci ha consegnato anche altri singoli meravigliosamente body and soul, quali “Outhouse” e “Dinamo”, due capisaldi per ogni corpo danzante del Vecchio Continente. Insomma, chi si è avventurato alla scoperta di questo album senza aver prima letto niente si è sicuramente avvicinato pensando a un disco house.
Ed è qui che scatta la trappola: di house non c’è proprio niente. Indietronica, semmai. Ma è solo un punto di partenza, un’etichetta insufficiente, una definizione che da sola non basta.
Proviamo ad allargarci, allora. Potremmo parlare di un’indietronica psichedelica, che sovrappone acquarelli di note effettate a ritmiche relativamente semplici, dirette, immediate. Un pugno di girl/boy song a presa rapida. E d’altra parte il nostro non ha mai fatto mistero della sua idolatria per quell’Aphex Twin che, se non lo ha influenzato nel suono, lo ha profondamente aiutato a scoprire il mistero di quell’attitudine che non è né solo da ascolto né solo da ballo, regno segreto di cui pochi posseggono le chiavi. Chi più chi meno, gli altri ispiratori dichiarati nelle interviste si sentono, nelle sue composizioni: il kraut-rock più cosmico (Cluster in primis), Four Tet, i Mogwai, gli Orbital, i Boards Of Canada. E’ davvero una nuova generazione, quella che sta arrivando nei nostri lettori.
Fake mette subito in mostra le sue armi migliori con “Stops”: “sfiatatoi” sintetici alla Kieran Hebden (e che richiamano quelli del remix di “The Sky Was Pink”), melodie dolci, un gusto particolare per le atmosfere evocative. E stratificazioni, stratificazioni, stratificazioni. Anche la seguente “Grandfathered” mostra di cosa il giovane Nathan sia capace, con la sua straordinaria capacità di tenere in piedi le melodie sul più impervio percorso di errori, cambi di programma, derapate, scansioni temporali riacciuffate per i capelli. Sono mondi in continua torsione, i suoi, versioni elettroniche (ma anche più riconciliate) di quelli dei My Bloody Valentine (tanto per sparare un altro paragone impegnativo).
Mondi, dicevamo… “Drowning In A Sea Of Love” ne dipinge molti. Ce n’è uno ultraterreno come quello di “Charlie’s House”, che sale su un arpeggio sintetico fino a suoni celestiali, a un paese che possiamo visitare solo durante il sonno. C’è la culla confortante di “You Are Here”, una quieta esplosione di gioia. Ci sono bozzetti di ufologia ambientale come “Bumblechord”, “Falmer” e “Bawsey”. C’è “Long Sunny”, ovvero il discreto fascino del loop (in sottofondo). C’è posto anche per l’irrequietezza di “Superpositions”, che mostra la maestria di un DJ Shadow nell’unire cadenze rapide e ansiose a suoni quasi atmosferici, carezzevoli, che chiedono quel tempo che il pattern ritmico sostenuto toglie loro implacabilmente.
Ma soprattutto c’è lei. Il capolavoro. E’ “The Sky Was Pink”, la sua personale “Interstellar Overdrive”. Un viaggio dalle proprie cuffie fino a Venere e ritorno. Il cielo dell’alba, lo stupore, la mente che non ha ancora voglia di fermarsi. Quello strano misto di malinconia e speranza che si può provare solamente al primo capolino del sole, quando si mischiano le delusioni del giorno passato e l’inguaribile fiducia in quello che viene.
Non lasciatevelo scappare, dunque. In questo disco c’è quello che gruppi come Boards Of Canada e Sigur Rós vi hanno dato a loro tempo: un biglietto di sola andata per Altrove.
08/05/2006