Kate Havnevik

Melankton

2006 (Continentica Records)
electro-pop

A volte il pop è come un bambino capriccioso che cerca di fuggire verso la propria dimora immaginaria, nascondendosi di scatto in qualche angolo remoto della casa, in cerca di un diversivo fantasioso che ne alteri la visione classica e la reale configurazione, fino a quando l’eccesso ludico non trasfiguri il tutto in qualcosa di compromettente; altre volte, invece, è semplicemente un fanciullo in cerca di se stesso, consapevole degli spazi personali e dell’intero circondario familiare, felice dei propri giocattoli, sempre attento a non deformare le singole regole del gioco.
Se fosse un bimbo “Melankton” avrebbe entrambe queste due attitudini infantili (?). Un parallelo metaforico di intenti che forse ha turbato inconsapevolmente la bellissima Kate Havnevik durante le registrazioni di questo suo primo disco. Una volubilità compositiva che racchiude in sé anni di glicthosità indipendenti e svenevolezze melodiche di stampo classico. Non è una caso che questa bellissima ragazza norvegese abbia preteso a sua disposizione la Bratislava Symphony Orchestra, con il compito oneroso di formalizzare la profumazione strumentale dell’opera, mentre è lei stessa a curarne i non facili incastri in regia, tra Oslo, Bratislava e Londra.

Prima di analizzare nel dettaglio i singoli pezzi è doverosa tale precisazione: "Melankton" non è il solito dischetto pop usa e getta di una ragazzina agli esordi, non è l’usuale stesura sbarazzina che imperversa tra gli scaffali dei mercatini domestici indie, facilmente accostabile al pop anni 80 o se volete anche ai 90 rose e fiori, è tutt’altro. Difatti, ha già un posticino tutto suo nel cassetto segreto di quest’inizio millennio, magari in basso, nascosto da tutte le piccole luci del calderone monouso (e non solo), accovacciato con la stessa smania armonica del bambino di cui sopra.
Una manciata di melodie smaniosa di sorprendere, da un animo spalancato e protratto verso la bellezza, tremante di impazienza entusiastica; i colori, che si riversano impetuosi con lo scorrere delle canzoni, dipingono un'immaginaria atmosfera eterea. Una piccola curiosità per gli amanti delle coincidenze: la produzione è stata affidata a Guy Sigsworth, compagno di Imogen Heap nei Frou Frou, formazione che spopolò qualche anno fa con il singolo “Breathe In”.

Le emozioni fluiscono sinuose con decisione, a partire dall’inizio, coincidente con “Unlike Me”, una perla che si fa notare a distanza per la sua lucentezza, impreziosita da una sezione d’archi sontuosa. Kate, già da subito, evidenzia una potenzialità vocale fuori dal comune, a metà fra il calore di una crooner jazz e una cantante soul. Inoltre, le sue variazioni cromatiche d’interpretazione si adattano ai contorni elettronici che spesso circondano gli episodi. Una scelta pericolosa, questa. Per evidenziare il valore di quest’opera, ci vengono in aiuto i tanti esempi di sperimentazioni elettroniche con l’apporto di apparati classici, che, con nostro dispiacere, spesso si invischiano in risultati di dubbio valore artistico. Ma, come si sa, ci sono anche le eccezioni. “Melankton” lo è senza dubbio, perché, se dal punto di vista vocale è coraggioso e sufficientemente positivo, da quello compositivo non lascia scampo. Gli intrecci fra isterismi elettronici, avvolgenti partiture di orchestra e storie smorzate dal vento combinano un risultato sorprendente.

I contrappunti solisti di piano, danno il via a “Don’t Know You”, che recita :”I know the stars, falling from the sky, falling for you… And I know the wind, combing your hair, caressing your chin.. but I don’t know you, will show me, who you are?”. Affreschi di poesia autunnale, che danno sfogo a violenti mutamenti personali, schiantati da un battere ripetitivo di un oggetto sconosciuto, in cui, gli interventi di un fiato scordato, mostrano un misterioso fascino decadente.
Un tumulto simile al vento imbastice un altro sogno fatto musica (“Not Fair”), componendo i ricordi con l’ausilio della disperazione, gocce di malinconia scendono dal cielo, come un paracadute desiderato che si libra fra le nuvole (“You’re like a parachute descending from the sky”, “Nowhere Warm”).
Parole che sanno di dispersione onirica in “You Again” (“I can’t go anywhere, without feeling strange, I can’t see anyone, everything has changed”), contorniate da suoni plastici, che rimbalzano con risolutezza; fra un fiato poco credibile e flussi elettronici divertenti, è inevitabile un’ubriacatura di dolcezza per l’ascoltatore.

L’esplosione di una brezza, a tratti appena percettibile, si materializza in “Serpentine”, ancora più infarcita di movimenti operistici, in particolare un violino, gelido e preciso, si presenta con puntualità chirurgica, mai lasciato a sé stesso, né passivo, ma accompagnato da complesse intarsiature melodiche. La successiva “Kaleidoscope” è forse l’episodio che più di tutti riassume l’essenza della musica di Kate: ancora archi, magistralmente dosati, una voce che riverbera tremolante come le onde sciabordano, un armamentario elettronico che chiama a testimoniare scene apparentemente assenti come il down-tempo e il trip-hop, dimostrandone, se ce n’era bisogno, la valenza assoluta tutt’oggi.
Da non dimenticare le seguenti parole :”You cut me out in little stars, and place me in the sky. [...] A tingle travels up my spine, a cluster of colours and twine, as we melt into wine”.

“Sleepless” potrebbe causare un attacco di invidia nel Sylvian degli alveari segreti: l’andatura alla Sakamoto ricorda le digressioni celesti che accompagnavano i turbamenti drammatici del Capitano Yonoi. “Suckerlove” racconta un amore malato e tormentato, fra riflessioni intricate e incertezze impertinenti, “Se Meg” si dichiara come un episodio avant-pop in cui la componente elettronica sparisce completamente per dar spazio ad ariose partiture d’archi; la voce cristallina, come mai la si poteva ammirare all’interno del disco, si dilata, con punte di purezza angeliche.
I sentori di una progressiva scarnificazione della struttura portante vengono ribaditi al termine del disco. Infatti, “Someday”, con il suo fare fascinoso, punta tutto su un andamento comandato dall’orchestra e dalle parole, esaltando elementi in precedenza leggermente offuscati, come la presenza di una batteria di percussioni, o certe espressioni diluite della voce di Kate.

L’atto conclusivo di questa splendida opera, spetta a “New Day”, sette minuti di oscurità color ocra che sembrano levarsi lentamente, senza alcuna coscienza delle sensazioni che si sollevano in chi, per la prima volta, si accinge all’ascolto. Un lavoro di raffinatura elettronica di rara precisione e perizia: singulti ritmici si sbriciolano insieme a una sporcizia sonora che pare una musica glitch edulcorata, note di tastiera si rincorrono con la scia dietro le spalle, attimi di panico dipinti con un loop vocale danno un tocco oscuro agli ultimi secondi di musica.

E, dopo la fine, si può far fronte a un’ultima riflessione. Lo schiudersi dei fiori è la nascita della vita, l’esordio di una cantante è il principio di un sogno; realizzarlo ha un duplice significato rispetto al soggetto che lo impersonifica: soddisfazione e gratificazione artistica per chi scrive le canzoni, incanto e felicità strabordante per chi ascolta. Lei, già da ora, ha compiuto in pieno le sue fantasie, noi, da ascoltatori innamorati, speriamo che l’incanto non finisca mai.

Tracklist

1. Unlike Me
2. Don’t Know You
3. Not Fair
4. Nowhere Farm
5. You Again
6. Serpentine
7. Kaleidoscope
8. Sleepless
9. Suckerlove
10. Se Meg
11. Someday
12. New Day

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