Sono italiani, ma cantano in inglese, i Marti, band guidata dal compositore e attore Andrea Buschi, quasi un Nick Cave italico. "Unmade Beds" è il loro disco d'esordio e si muove con una delicatezza, un rigore ed una classe invidiabili tra suono neo-romantic , cabaret, musica classica di matrice europea e technopop, consegnandoci uno dei dischi italiani più affascinanti dell'anno.
La voce cavernosa e pastosa di Buschi (qui anche al fender rhodes e al synth) è accompagnata dalla chitarra di Luca Pagnotta, dal basso di Claudia Natili, dall'oboe, dall'accordion, dal piano e dal sax di Simone Maggi e dalla batteria, dall'organo e dall'armonica di Andrea Franchi. Musica che sembra dipingere un palcoscenico sospeso, attraversato da un respiro autunnale, sofferto ("God's Thick Gold Wrist Watch"), un lato oscuro che da sempre e per sempre attraversa qualsiasi barlume di gioia. Insomma, l'estate è finita, è quindi sarà meglio mettere da parte un pò di sana malinconia. Quella vera, venata da una felicità un pò tutta a modo suo, strampalata ("September In The Rain"), costruita con quella giusta dose di sofisticazione che ci attrae come una donna matura che sa ancora il fatto suo ("No Sundays").
Un mondo che si scopre essere la scenografia di un film noir, con tanto di colonna sonora tra Tubeway Army e Depeche Mode, con un tocco di sensualità assassina ("Buying Things From Your Past"). Se "Coming From" è una deliziosa escursione in territorio jazz, ma con tocco cabarettistico, il dolceamaro di "Sad Girlfriend" è un altro gioiellino di bagliori, evanescenze e disquisizioni del cuore intorno a cose andate vie, scomparse, ma forse non del tutto perse. E, quindi, destreggiarsi tra urgenza e meditazione è sempre il modo migliore per raccapezzarsi in mezzo alle tempeste dei sentimenti; ma anche, perchè no?, lavorare con strutture certosine, ma con quella leggerezza incantevole che sa molto di lirismo sincero e sentito ("Bring Me The Head Of"). Suoni acustici e sintetici si colorano delle stesse sfumature del nero, dandosi il passo a vicenda, senza pestarsi i piedi. E' di certo un disco suonato in maniera egregia e prodotto magistralmente da Paolo Benvegnù (leader degli Scisma) e poco importa se si paga ancora dazio ad artisti come Cave (si veda "Rose") o a quanti si annidano tra le pieghe del disco (da Leonard Cohen a Scott Walker, passando per il Bryan Ferry solista e Mark Hollis - quest'ultimo fantasma vivo in "Privilege").
Ariosa e trascinante la meravigliosa "They're So Small" sembra un'outtake dei Morphine più lussureggianti ed avvolgenti, ma anche la conclusiva "If You Could See Me Now" sceglie di puntare lo sguardo in alto, liberandosi in un ritmo caracollante e in un ritornello (" The hand I Need It's At The End Of My Arm ") che azzanna senza starci troppo a pensare, puntando direttamente al cervello, prima di svanire nel corpo costretto a danzare.
30/08/2006