Nuovo album per gli Oakley Hall dell’ex-Oneida Patrick Sullivan, a qualche mese da “Second Guessing”, con una solida esperienza live e una più accentuata componente di jam elettrificata guitar-oriented . Se in “Second Guessing” le divagazioni stilistiche e la produzione tentavano di rendere sensazioni sospese e ipnotiche, qui si fanno avanti suoni marcati e strutture compatte, inventiva genuina. Il 2006 sembra davvero essere l’anno della presa di coscienza, dell’approfondimento più deciso della personale ricerca artistico-musicale di quel Papa Crazy (nome in codice di Sullivan nel periodo di militanza negli Oneida) che fino a poco tempo fa era piuttosto dedito alla demolizione delle convenzioni armoniche residuali della neo-psichedelia.
Non mancano, invero, le ormai riconoscibili caratteristiche del sound di compromesso del complesso. Le vocal armonizzate di stampo tradizionale, ad esempio, fanno ancora bella mostra nell’iniziale “Confidence Man” (una staffetta rock ‘n roll-southern tra distorsioni, organo Doors-iano e aggressivi anthem Young-iani), ma sono sviluppate con maggiore perentorietà, pure accompagnandosi alla tarantola di fuzz di chitarre e basso e alle loro successive fluttuazioni. Nel boogie scaltro di “Lazy Susan” emerge maggiormente il trambusto contorto della chitarra, a impostare un tono di maggiore severità, con intermezzo pregevole e rincorsa in forma di jam tra le due chitarre a sormontarsi e a distorcere la loro stessa - classica - impostazione folk.
L’ascolto è dunque piacevole, e pure dotato di una certa profondità. “Living In Sin In The Usa” è una sortita barocca che diventa riff variegato, arpeggio atmosferico di chitarra e fiddle che finalmente innalza la dose di trasfigurazione: si tratta davvero di una ballad preziosa e articolata, resa ancor più atmosferica da organo Bach-iano, refrain contagioso a più voci, contrappunto austero di chitarra, sballi caotici. "Havin' Fun Again" flirta con lo slowcore, gli spasmi cacofonici della chitarra e gli sbalzi del duetto dei due vocalist.
In “Bury Your Burden”, degna di Simon & Garfunkel, si fanno largo nenie da muezzin e influssi indianeggianti, e “House Carpenter” sperimenta con incensi desert-rock, soffuso canto raga (femminile) e sfuriate collettive da far invidia agli Okkervil River. Non mancano le esplosioni elettrificate di accordi eroici, oltre ai loro tipici numeri strumentali sudisti, che ora sono ancora più variopinti. “Spanish Fandango” è danza ternaria country in piena regola, quasi nostalgica, impostata da banjo, chitarra acustica e fiddle , mentre “Nite Lights, Dark Days” è una ballata strascicata che accorpa timbri decorativi (con linea melodica strutturata per addizioni successive).
I 7 minuti di “If I Was In El Dorado” dischiudono un roots esplosivo (un po' il seguito di "Volume Rambler") che implementa chitarre pienamente malleabili, giososamente sormontanti, costruttrici di atmosfere gaie che contrappongono fiddle, distorsori e arpeggi jingle-jangle, ma soprattutto sublimandosi nella paradisiaca oasi centrale, addirittura allucinogena.
E’ un album, il terzo in neanche due anni, che evita la ripetitività con innata noncuranza e spartana visionarietà, ma anche epurando alcuni persistenti difetti di fabbricazione, dalle linee vocali traditional alle sortite strumentali forti di una maggiore scioltezza. Persino la batteria di Greg Anderson, non certo un campione di fantasia, stavolta si lega a puntino. C’è pur sempre di mezzo il passaggio d’etichetta (da Amish a Brah), ma - a line-up invariata - pare quasi una band intimamente diversa, orgogliosa delle proprie scelte, in grado di coadiuvare al meglio un revisionismo non troppo dotto.
09/09/2006