Terra di spavalderie psichedeliche, quella texana. La scena di Austin, in particolare, appare la più contaminata - a inizio 90 - con stilemi hard-rock e hardcore. Nobilitata da band-culto come gli Ed Hall (e i cugini Cherubs), ha saputo fondere la potenza di un suono ormai decennale con le intuizioni irriverenti e schizoidi dei Butthole Surfers (ovviamente passando il tutto al filtro dei due guru del rock texano, Mayo Thompson e Roky Erickson), quindi giungendo a una nuova, aggiornata e propugnante definizione del freak di derivazione zappiana.
Gli Sword, i nuovi rampolli di questa nobile tradizione, ne costituiscono - da soli - un capitolo quanto mai convenzionale e reazionario. Formata di fatto a fine 2003, la band trova line-up stabile come quartetto formato da J. D. Cronise (voce e chitarra), Kyle Shutt (chitarra), Bryan Richie (basso) e Trivett Wingo (batteria). I loro live-show , votati a proto-stoner sabbathiano e hard-blues isterico, sono talmente incendiari che acquistano una nomea importante, almeno ad Austin e dintorni. Il loro debutto, per la newyorkese Kemado Records, non fa che congelare le loro esecuzioni in formato accessibile.
Si spazia da tracce di thrash Megadeth-iano ("The Horned Goddess") a intro di psych cauta, un po’ System Of A Down, un po’ Led Zeppelin, un po’ giochino mutuato da jam a perditempo in sala prove ("Iron Swan"), dagli accordi lenti, distorti e rimbombanti (e finto-epici) di nettissima ispirazione Black Sabbath ("Celestial Crown") a riff e assoletti inutili o sprecati ("Freya"), intermezzi tribali-oscuri à-la Melvins immersi in retrogradi hard-rock di maniera ("Winter’s Wolves").
Se i Kyuss ingigantivano la portata distruttiva di Iommi e compagni, gli Sword lo riciclano in modo asettico regredendolo involontariamente (?) a semplice messa in piega: i casi del passo infarcito di power-chord Stayer-iani di "Barael’s Blade" e il telefonato appesantimento della cadenza all’attacco del canto di "Lament Of The Aurochs" ne sono perfetti emblemi. In "Ebethron", a parte un nuovo scontato fraseggio roboante hard-blues a duettare con il canto strozzato (una loro patetica versione del crossover), non si scorge altro che vuota possanza da poseur reo-confessi. L’unica intro che non sappia di già sentito è quella di "March Of The Lor", a incanalarsi in una tempesta speed-metal non lontana dall’eroica ferocia dei padri fondatori del genere, anche se (come sempre) tendente al dispersivo.
Inetto e sragionante album di genere, senza interesse. L’ artwork da santino per chiromanti, disegnato da Conrad Keely dei conterranei (e non meno retrogradi, ma di contro ambigui) And You Will Now Us By The Trail Of Dead, funziona meglio come copertura dietro cui celarsi per rinnegarne la paternità artistica.
28/05/2006