Con la ferma intenzione di cimentarsi con una musica che rifiuti lo stereotipo - che è poi la mission di Setola Di Maiale - Stefano Giust continua ad avventurarsi nei meandri dell’improvvisazione (più o meno) radicale, coadiuvato questa volta da Bruno Clocchiatti (Those Lone Vamps) e da Matteo Perissutti.
Dicevamo “più o meno”, perché a differenza di altri progetti analoghi - penso a l’Amorth Duo per esempio - e pur nella sua sostanziale indefinibilità, Black Taper Taiga conserva quelle fattezze avant-rock che rendono il suono maggiormente inquadrabile, ma non per questo meno creativo. Insomma, se ne scorgono se non altro le ascendenze, nonostante i contorni restino sfumati.
I tre provano infatti a suonare blues. Ora, che questo sia effettivamente blues o che al contrario sia una delle poche forme di blues possibili nel nuovo millennio, resta del tutto opinabile, anche se personalmente propenderei per la seconda opzione.
Ed è proprio la trasfigurazione del “canone” blues originario la carta vincente di Black Taper Taiga. Si va così da sconquassi di avant-rock spastico nei due minuti e poco più di “Fandango” (da sottolineare qui l’interplay tra il bofonchiare beefheartiano di Clocchiatti e gli svolazzi batteristici di Giust), alla deturpazione di un ipotetico funk tribale in “Closer”, mentre “The Nightwatch” sublima l’astrazione a partire da brandelli chitarristici Mazzacane-style che vorrebbero riesumare un minimo di struttura.
Il tutto all’insegna dell’imprevedibilità, o se volete di una mutazione in itinere che annulla ogni referenza.
Ecco, già me li immagino a suonare con Jandek (o anche Keiji Haino e magari Anthony Braxton) in una jam session derelitta, e hai visto mai che la giustapposizione degli idiomi non spiani ulteriormente la strada verso la definitiva (e auspicata) putrefazione del codice. Ammesso che non sia già putrefatto…
25/03/2008