Con il suo one man project Les Joyaux De La Princesse, Erik Konofal può, a ragione, essere considerato l’iniziatore del cosiddetto Martial Ambient/Industrial. Collezionista di vecchi 78 giri e di materiale sonoro di origine storica, Konofal ha man mano portato questo sottogenere a un livello di comunicatività impressionante, attraverso opere di elevato spessore artistico in cui, accanto all’elemento musicale (elettronico o di matrice classica), convivono discorsi politici, voci trovate, vecchie canzoni popolari, tutte appartenenti a un periodo della storia francese compreso tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.
Uno stile unico, maturato progressivamente lungo una ventennale carriera di culto, attraverso dischi pubblicati sempre in edizione limitatissima (fino ad un minimo di 60 copie) e dal prezzo molto spesso esorbitante. Tuttavia, per questo nuovo, eccellente “Aux Volontaires Croix De Sang”, per un breve periodo sarà disponibile un cd, diciamo così, “normale”, che spero molti di voi vorranno non farsi sfuggire, perché siamo di fronte (almeno per chi scrive) all'opera più emozionante (il lettore capirà il nostro rapimento, giustificandolo, si spera, dopo l'ascolto...) e “vera” di questo primo scorcio dell’anno.
Proseguendo lì dove si era fermato “Croix de Feu-Croix de Bois” (2000), “Aux Volontaires Croix De Sang” è un vero e proprio concept sulla “Croce di Sangue”, uno dei tanti movimenti popolari e militari che si fece portavoce di un risveglio della coscienza nazional-popolare francese. Quello che ne viene fuori è una sorta di documentario immaginario, un viaggio a ritroso nel tempo, uno scivolare lungo la china della memoria, passando, innanzitutto, lì dove la stessa sembra essersi incarnata nel marmo, al suono di un’ouverture chiesastica che magicamente sospende il presente in un’eternità indefinita (“Sur la tombe d'un Camarade (1919)”.
Come da un villaggio lontano in cui la Storia si consuma al fianco della povera, piccola gente, provengono voci che si mescolano, la profondità della distanza a designare un’alterità che il brusio verticale come la pioggia insistente sembra volere chiudere in un abbraccio soffocante ma materno (“Décorés au péril de leur vie”).
Impressionano queste presenze-assenze di uomini morti la cui baldanza e il cui coraggio non sembra voler per nulla al mondo svanire, come il tempo che foto in bianco e nero sembrano aver fissato in uno sguardo, in un sorriso, in una smorfia inclassificabile. Musica, questa, della lenta sublimazione, come nel crescendo marziale e radioso di “Marche des Croix de Sang (et Allocution du Capitaine Hanot d'Hartoy)“, brivido lungo la schiena come non sempre (ahimè!) ci meritiamo, la voce inneggiante dinanzi a una folla che rivive nelle luminescenze dell’organo mentre scala la vetta del cielo. Lentamente. Disperatamente (“Pour sauver l'ordre”). Magniloquenza e terrore. Una stratificazione emozionale, squassante proprio perché viscerale ma senza enfasi. O dell’imponenza del tragico, perché, tutt’altro che diletto o passatempo, la musica ha il dovere, innegabile, di rompere gli argini.
Fiume in piena, aperto su lagune Schulze-iane (“La voix Nationale (Français choisissez)”, ma pronto a costeggiare cattedrali immense, le voci di uomini-fantasmi risucchiate dal tempo, in marcia verso la gloria (“Des cris dans la tempête”). Non c’è nulla al mondo come la musica quando dispiega la “differenza”, quando ci ridona il brivido della trascendenza (“L'union des Patriotes (1927-1929)”. L’ebbrezza della malinconia. Il grande corpo del cosmo che, indifferente alle umane, “magnifiche sorti e progressive”, riposa, orco misterioso e bellissimo (“Impressions d'un officier blessé”). “Pour la Patrie (Croix de Feu et Combattants volontaires)” ha il respiro sofferto e grandioso di una liturgia imperfetta, più sommessa nell’inno di “Hymne des Croix de Sang (1934)”.
Il tempo perduto si materializza “in diretta” nella chanson “Les Croix de Feu (chanté par Marcel Dambrine)”, prima che un senso di vacuità senza scampo ci assalga con quella sommessa elegia che è la title track e la speculare “Front-Franc et Flambeau” vacilli in un riverberarsi infinito che differisce quel presente in un futuro sempre più lontano. Poi, un vecchio vinile, che suona una vecchia canzone. E, improvviso, l’abbandono, il volto bloccato al vetro. E, dalla stanza accanto, quel fruscio il cui rumore è il vero suono della memoria che matura giorno dopo giorno (“Cimetière (chanté par Charles Panzéra))”.
27/02/2007