Una colata lavica. Magma denso, granitico che eone dopo eone, inesorabile si conquista un varco verso la superficie dalle più profonde viscere del pianeta. Un'eruzione violenta in qualche angolo di mondo disabitato, la natura non ha bisogno di spettatori per celebrare la sua potenza terrificante e meravigliosa. Sciara che brucia e divora ogni cosa che incontra. I ghiacci millenari della Kamchatka sepolti da un oceano di roccia incandescente, apparentemente inarrestabile.
Ma lentamente le ceneri si addensano e formano spesse coltri di nubi. Grigie, torve, offuscano il sole. In uno scontro fra titani, il rombo di un tuono riempie la distesa desolata. E allora succede qualcosa di inaspettato: una goccia d'acqua, poi un'altra, e un'altra ancora. La pioggia torrenziale si riversa sul fiume di lava, ed evapora istantaneamente a contatto con esso. Un rito sacrificale muto, inanimato, ma intanto il gigante si placa. La roccia solidifica, la sua avanzata si ferma. Poi, un tenue raggio di sole fa capolino...
Che gruppo, i Pelican. Tre dischi, tre centri. Lasciate pure perdere la manica di fesserie scritta poco sopra, che sarà anche immaginifica ma vale per tutti i migliori gruppi nel genere (Red Sparowes, Russian Circles, Minsk: tutti emuli dei Pelican guarda caso). I Pelican sono i migliori.
Capace di mettere d'accordo metallari e indie-boys, la loro formula ibrida di doom metal e post-rock (la scuola epica di Godspeed You Black Emperor!, Explosions in the Sky, Mogwai) arriva con "City of Echoes" a maturazione, presentandosi non più come giustapposizione o compenetrazione di linguaggi autonomi, ma come vero e proprio linguaggio a sé: compiuto, sviluppato, coeso.
"City Of Echoes" non segna un allontanamento dalla direttrice "Australasia"-"The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw", ma ne è la naturale prosecuzione. L'approdo a una formula più organica e bilanciata comporta da un lato un certo manierismo, dall'altro una predisposizione a fungere da modello per ulteriori emulazioni. Elementi che fortunatamente non compromettono la qualità dell'album, ma al contrario ne aumentano la rappresentatività e l'importanza in riferimento alla scena.
Il brano di partenza, "Bliss in Concrete", chiarisce subito la formula per chi già non la conoscesse: rock strumentale, muscolare, fortemente incentrato sull'uso delle chitarre. Musica da headbanging, fatta di riff monolotici, circolari alla maniera dei Black Sabbath, ma senza la foga di assalire da subito l'ascoltatore con la sua fangosa pesantezza. Al contrario, i Pelican sono maestri nell'arte del creare attesa, costruire linea su linea una tensione, un climax che porta dall'arpeggio pacato e disteso al sisma sludge/doom più travolgente.
Questo però lo sapeva già chiunque avesse ascoltato anche di sfuggita un disco della band, o di uno dei suoi mille cloni. La differenza è che con "City of Echoes" non si è più di fronte a un gruppo "post-rock" che all'apice della tensione decide di sfoderare i chitarroni pesanti, all'accostamento (anche se ben riuscito) di due stili ben definiti ma tutto sommato tenuti a debita distanza, ancorati ai loro cliché. La linea di confine tra "metal" e "post" è completamente svanita, il basso ruggisce nei momenti più intensi come nei più solari e diradati, la luce fa caplino anche nel mezzo dei vortici magmatici più impenetrabili. Esempio perfetto di questa completa fusione sono gli inseguimenti di chitarra di "Spaceship Broken-Parts Needed", in cui il tono "maggiore" e carico di speranza non viene mai meno nonostante i continui cambi di atmosfera che si avvicendano e rendono il brano fortemente narrativo, cinematografico.
La maturità e la padronanza stilistica (che purtroppo ancora mancano dal vivo) consentono all'album di rifuggire soluzioni di compromesso e spingersi senza timore in territori estremamente impantanati e tamarri ("Lost in the Headlights"), di lanciarsi in costruzioni di ardita leggerezza (i giochi di chitarra sospesi alla The Edge di "Far From The Fields") o di concedersi parentesi inaspettatamente vicine al folk/post dei Grails di "Redlight" ("Wind With Hands").
I Pelican non hanno bisogno di un disco intero per dimostrare di aver raggiunto la sintesi definitiva delle loro idee, e giustamente preferiscono aprirsi a misurati sbilanciamenti.
Certo è che, dal prossimo disco, dovranno per forza inventarsi qualcos'altro...
07/06/2007