Rocky, in questo caso, più che a Balboa, fa pensare al Midnight cowboy di John Schlesinger.
La nostalgia di un orizzonte libero e terso che forse è esistito solo nella tua mente, la solitudine di quell’autobus blu, gli aranceti della Florida che si stampano contro i riflessi del finestrino e l’unico amico che dorme per sempre nel sedile accanto al tuo. Anche i Votolato hanno lasciato il ranch di Frost (abitanti: 647) nel Texas per trasferirsi in riva al Pacifico, a Seattle, ma Rocky, anziché perdersi in improbabili sogni mercenari, ha trovato subito la sua strada: a 29 anni ha già realizzato la bellezza di cinque dischi a nome suo, senza contare i tre con la cow-band di famiglia (vi suonava anche l’eclettico fratello Cody, poi membro fondatore dei Blood Brothers) i Waxwing.
“The Brag And The Cuss” è un disco scabro, dal taglio semplice e dalla linea armonica pulita che calza addosso al suo autore come uno stivaletto ben modellato attorno a una caviglia: i suoni rustici dell’alt-country sposano l’intonazione agra della suburbia, un po’ Elliott Smith, un po’ Will Oldham (ma senza le lamentazioni accidentate e i melismi fuori tono di quest’ultimo), le immagini sono vive e icastiche, termini di metafore semplici, chiaroscuri sbozzati a matita, lasciando poi che la memoria aggiunga da sé i colori del ritratto, lividi o saturi, diversi, comunque, di volta in volta.
Il tema dell’errare, del viaggio come sospensione-riflessione sul dolore si ripercuote nelle canzoni a livello sia stilistico sia concettuale: il ritmo ha spesso una progressione dolente, è una cavalcata sulla via del tramonto o una cupa sterrata promenade; i testi sono una mappa stradale che si snoda fra le curve rugose dei rimpianti e i ciechi binari dei vecchi amori per approdare sino ai cerchi che il bicchiere disegna sul bancone in un motel della Interstate. “Lily White”, ad esempio, è un paesaggio armonico alla John Denver visitato dagli “angeli angosciati” di Gram Parsons, “Postcard From Kentucky” (per banjo ed organetto) e “Silver Trees” (folk appalachiano per chitarra e armonica a bocca) sono fra le sue melodie più memorabili, filastrocche furtive che scivolano come lacrime nel cavo della mano, piccoli salmi profani recitati sottovoce al risveglio da una sonno alcolico.
Il ritmo ferroviario e il picking blue-grass di “Before You Were Born” si accoda alla marcetta honky tonk nel ritornello di “The Wrong Side Of Reno”; singulti di attitudine punkish sopravvivono invece in “Red Dragon Wishes” (l’ultimo Mike Ness e lo Ian Mc Kay acustico disciolti con una certa enfasi springsteeniana) e “Time Is A Debt” (sgroppata elettroacustica su tempi dispari).
Per il resto il country “eneico” di Votolato sa sposare l’elegia del disamore (“Whiskey Straight”) con l’epica del dissapore (“The Old Holland”), il soliloquio lo fi con la torch-song nashvilliana (“The Blue Rose”, “Your Darkest Eyes”). Un disco che guada l’Erebo dell’ispirazione senza pagare pegno al passato (idealizzato dalla tradizione) ne al presente (tormentato dai ricambi indie).
Un fioretto da appuntare al nuovo anno.
13/03/2008