Con un nome così, non bisogna aspettarsi delle carezze! Bisogna, invece, immaginare un cataclisma noise-rock/post-hardcore memore di tante belle cosine appartenenti al catalogo della Touch And Go e della Skin Graft. Quello dei Putiferio, però, è un cataclisma sonoro dall’altissimo tasso emotivo. Scarica sull’ascoltatore rabbia e veleno, ma non disdegna di aprire squarci profondi dentro le viscere di una malinconia che sa tramutarsi, all’occorrenza, in lirico abbandono.
Originario di Padova e legato a doppio filo a diverse esperienze musicali del Nord Est italiano (One Dimensional Man, Kelvin, Bluid, Lodio, Huck), il quartetto composto dai chitarristi Mirco e Woolter, dal batterista Giulio e dal cantante Panda esordiva nel 2008 facendo immediatamente il botto: “Ate Ate Ate” s’impose, infatti, come uno dei capolavori del rock italiano, forte di una scrittura dirompente, labirintica, ma estremamente compatta, come ben testimonia, in apertura, “Give Peace A Cancer”, un brano che ingloba anche texture elettroniche per aumentare il proprio grado di destabilizzazione.
Fatto a pezzi il senso dell’orientamento con le schizofreniche “Aristocatastrophism” e “Carnival Corpse For Servers”, la band tocca il suo apice con i tredici minuti di “Putiferio Goes To War”, un’odissea sonora (impreziosita dalla glass harmonica di Robert Tiso e dalla sound machine di Dario Neri) in cui si rincorrono fibrillazioni a metà tra electro e drum’n’bass, disarticolazioni industriali, conflagrazioni free-form, baratri psico-ambientali, schiamazzi Neurosis e risacche harsh-noise.
Come a voler far lentamente decantare la tensione accumulata nel brano precedente, “Hate Ate 8” (con la tromba di Francesco Smania) srotola una ballata tipo i Radiohead di “Idioteque” dispersi nel buio siderale, la cui desolazione è mitigata, però, da uno strisciante sentimento di rivalsa. Con “Where Have All the Razors Gone?” si torna, invece, a battere i sentieri del post-hardcore più tumultuoso, ma a questo giro c’è anche Luca Mai degli Zu al sax e si va, quindi, di impennate jazzcore, di parapiglia al cardiopalma. Durante i primi due minuti di “HOLES Holes HOLES”, invece, una tribù di percussionisti africani pianta la propria bandiera in studio e imbastisce un rituale tribale, preludio all’ultima curva, dietro la quale la band, accortasi del traguardo ormai prossimo, pompa distorsioni dalle casse come allegorie di un sublime disastro dell’anima.
09/06/2019