Vorremmo proprio vederli i nostri simpatici nerd in salsa britannica rimestare suoni nell’oscurità, come sembrerebbero annunciare i titoli di testa. Vorremmo, appunto. Ma il pensiero, bizzarro quanto immaginare i Joy Division suonare i bongos addobbati con camicie hawaiane, lascia spazio a una ben più colorata realtà nel breve volgere di qualche frame. Lo smarrimento rimane nel titolo, e si ha subito la conferma di quanto già si sapeva, ovvero che il massimo grado di oscurità con cui i Nostri sanno misurarsi è quello stroboscopico delle piste da ballo, o al più dei ruffiani cheek to cheek del prima e del dopo, in cui la luce spenta è propedeutica più ai diletti del corpo che non ai tormenti dell’anima.
“And then we start to dance” recitavano solenni i Kraftwerk nel 1977, e conosciamo tutti gli effetti procurati da quell’approccio alla danza nei trent’anni seguenti. Ebbene signori, il dado è tratto. Lasciando perdere arditi quanto improponibili paragoni (con i quattro di Dusseldorf c’é però in comune l’etichetta discografica Astralwerks), a quanto sembra gli Hot Chip devono essersi definitivamente appropriati del verbo dopo aver a lungo gigioneggiato sui confini.
La prima parte di “Made In The Dark”, infatti, è la cronaca dello scollinamento alla volta di tunzlandia, l’agognata scelta di campo che già il precedente “The Warning”, e il battesimo dei “Dj Kicks” lasciavano presagire.
Insomma ragazzi, ora si balla per davvero, una volta per tutte ma non solo, fra le braccia rassicuranti della Dfa nell’irresistibile melange di funky, techno e rock. Non che prima questo non accadesse, in proposito si rimanda ai killer singles ”Over And Over” e “Boy From School” di due anni or sono, solo che ora l’accessorio diventa core business, assumendo connotati d’immediatezza molto vicini a quelli del live act.
Non per niente l’apertura è affidata a “Out At The Pictures”, un synth -rock reiterato e scorbutico, quindi alle scariche elettriche e tecno-robotiche di “Shake A Fist”, due riusciti tormentoni che Taylor e soci hanno già avuto modo di testare con soddisfazione dal vivo. Prontissimi per il (dance)floor. Ecco che si tira dritto col singolo “Ready For The Floor”, la cui seduzione electro è prossima a quella del Felix Da Housecat più ispirato (“Silver Screen”?), che va a rinverdire i fasti della collaudata “Boy From School”, e poi ancor più spediti con la chiassosa “Bendable Poseable”. Ma l’oscurità, dunque? Solo pochi indizi che si traducono in ampie parentesi tra neo-funkettoni a tutta birra e robot colorati, e vissuti nell’economia del disco come pause contemplative degli ammirevoli esercizi di plasmatura dell’elettronica verso il pop, e viceversa.
Tracce da annusare in “We're Looking For A Lot Of Love”, nella title track, e ancor più nei lentacci di commiato “Whistle For Will” e “In The Privacy Of Our Love”, in cui vengono riposte le drum machine in favore del felice imprimatur già noto dai tempi di “Coming On Strong”. Della serie: non ci siamo scordati di come si scrivono pop song, come pure ci racconta la copiosa ironia del gospel digitale “Wrestlers”.
Ma, si diceva, è sempre l’attitudine festaiola a farla da padrona nelle chitarre vitaminizzate di “One Pure Thought” e nella giocosa pomposità di “Hold On”, tanto che sulla giostra in vorticoso movimento si intravedono persino le sagome dei fratelli Mael, mai così efficacemente vezzeggiati.
“You’re my number one guy, we are ready for the floor”, e magari un’avvenente fanciulla che ammicca seduta al bancone di un club notturno con le gambe accavallate. Sogno e rivincita dei nerd: che il nuovo techno-pop sia con voi, e non dite che non vi avevamo avvisato.
01/01/2008