Le streghe sono tornate, ma non tutti paiono essersene accorti. Perchè questo disco di “Whispers for Wolves” fa effettivamente vedere le streghe... Lei si chiama Melissa Moore, classe 1975 e proviene dal Maryland. Creatrice di strumenti autocostruiti (una sorta di Harry Partch in gonnella), curatrice di diverse manifestazioni riguardanti la sound art e la musica elettro-acustica, la Moore esordisce su Boring Machines con questo interessante progetto, che si dimostra sapiente nell’equilibrare le diverse fonti sonore da cui trae spunto; dall’elettronica alla concreta, al free-folk, fino all’utilizzo di partiture acustiche che sanno di musica tradizionale indiana, passando per un fingerpicking furioso e discretamente sui generis.
“Language Of The Dards” si avvale di tre pezzi sviluppati sull’insegnamento e altresì sui testi dello dello Yogi indiano Milarepa e, soprattutto, riesce a trarre forza da scelte quasi antinomiche riguardanti la strumentazione, comprendente elettroniche varie e oboe nepalese, oltre alla voce doomy della Moore. Ne vien fuori un disco che è come un viaggio in un mondo arcano, e che rimanda alle atmosfere austere (ma fascinose) di un Pandit Pran Nath in acido.
Un suono che utilizza pratiche d’improvvisazione (principalmente nei passaggi free-folk), ma che riesce comunque a snodarsi secondo una sua lineartià (e coerenza), caratteristica questa che ne consente una ascolto se non facile, quantomeno non tedioso, soprattutto a chi è avvezzo a tali sonorità.
I primi due pezzi sono davvero da incubo. “The Collective Darkness” inizia in modo meditabondo, per poi evolversi in un free-folk oscuro che a tratti ricorda le cose migliori dei Big Blood. E anche la vocalità della Moore si sviluppa secondo un registro simile, in più di un passaggio, a quello di Colleen Kinsella. Qui le elettroniche abbozzano sfondi da mantra tibetano, mentre alla strumentazione acustica è riservato il compito di dare colore (e calore) al pezzo.
“Kuu Aari Asso” fa addirittura meglio. La Moore disegna un’impalcatura rumoristica continuamente stravolta da deviazioni improvvisative e da un fingerpicking incalzante che riesce a dare dinamicità all’intero costrutto, mentre la conclusiva “The WomanEagle” ipnotizza con 18 minuti di lamenti estatici e svolazzi proto-psichedelici.
Un disco molto buono, questo “Language Of The Dards". Ha l’unico difetto di essere troppo monocromatico, ma tant’è. Il viaggio, però, è di quelli acidi assai…
20/07/2008