Dead Sea

Dead Sea

2009 (Autoprodotto)
alt-rock, post-rock

Arrivano direttamente dal continente australiano, sono un trio di giovani musicisti che ruota intorno al leader, frontman e mente dell’intera operazione, Tim Bruniges, si fanno chiamare The Dead Sea e si propongono come progetto discografico nuovo a livello internazionale, sebbene già discretamente noto e giustamente lodato dalla critica dell’emisfero meridionale da un paio di anni almeno. I primi passi della band, datati 2007, sono - in effetti - alcune produzioni in ambito elettro-strumentale espressamente studiate per accompagnare i video di Bruniges, personaggio carismatico ma anche artista poliedrico: un suo lavoro video intitolato "World Sham Pain", con le musiche del neonato terzetto, era esposto, nel 2007, a Parigi presso il Centre Pompidou.
La collaborazione intrapresa da Bruniges con David Trumpmanis (al basso) e Nick Kennedy (alla batteria), entrambi provenienti e ancora coinvolti in altre band attive nella città di Sydney (Big Heavy Stuff, Bluebottle Kiss, The Cops e Sarah Blasko), non si fermò comunque a quel lavoro audio-video, e lo stesso anno i nostri debuttarono come band con un Ep omonimo, riscuotendo un tiepido interesse in patria, specie nel circuito delle radio locali.

Appurato l’interesse nei suoi confronti (anche) da parte degli affezionati “esclusivamente” del suono, parallelamente all’attività di compositori in ambito video-cinematografico (un loro pezzo intitolato "Respire" è stato, per esempio, inserito di recente nella colonna sonora della serie "Csi: Miami"), il trio si mette al lavoro per scrivere i pezzi del debutto sulla lunga distanza, e a fianco dell’uscita-lancio di un paio di brani inseriti all’interno di alcune compilation, vedono la luce le dieci tracce proposte per quest’album d’esordio: pezzi in cui confluiscono tutte le anime del trio per un risultato d’insieme dall’aspetto musicalmente bifronte. Da un lato, l’anima di Bruniges e l’esperienza di composizione mirata al commento video si traducono in passaggi di carattere musicalmente contemplativo, alla stregua di macchie di soundpainting elettronico; dall’altro lato, l’esperienza indie-rock maturata da ciascuno nell’underground di Sydney si ritrova, invece, in certe dinamiche compresse tra uno scarno shoegaze e un rock strumentale, estremamente diretto, mai duro, semmai dolce e trasognato, anzi brillante a livello di contenuti ritmici.

Il disco corre, dunque, su questi due binari, ben condensando ambient e rock indipendente, il quale, esso stesso dilatato dal punto di vista compositivo su distanze altrimenti tipiche più del commento di sottofondo, trasmigra in un ambito più spiccatamente “post”: il suono che ne scaturisce, ragionando almeno sui pezzi con caratteri meno propriamente d’ambiente, potrebbe al primo acchito ricordare i Mogwai (in "Zabriskie Point" specialmente, il pezzo più riconducibile al post-rock più convenzionale), almeno a livello di schema sintattico, ma le differenze sono significative in termini di sonorità, qui prossime a un rock più root e informale, molto meno liquido e transigente; basti citare la traccia d’apertura “Slow Jet", che viaggia su un brontolio di sintetizzatori lanciati a un ritmo tribal, ma senza tacere di “The Devil Bends”, che non solo si presenta in forma compiuta di canzone, ma si sviluppa pure con elementi di progressività, e ritmi spezzati sovrapposti a elementi shoegaze di gusto sintetico.
Post-rock pertanto, ma fino a un certo punto, fino al confine che sapientemente i tre “canguri” individuano in via preliminare, quasi on desk, e rispettano poi nella produzione finale: varrebbe a dire, entro i limiti di contaminazione consentiti dalle rispettive esperienze pregresse; resta, forse, solo un minimo di rammarico, laddove questi diversi momenti si mescolano solo a un livello superficiale, e non riuscendo che raramente a miscelarsi insieme (nella citata “The Devil Bends”, in parte nella fase conclusiva di "Bandicoot", ma veramente bene soltanto in “Departure Gates”), per dar luogo a una ricetta nuova, molto probabilmente anche vincente.

Cinque delle dieci tracce appaiono compiute e strutturalmente forti, mentre le rimanenti si presentano come gradevoli interludi di varia tessitura: dal soundpainting minimale e cristallino di “Okono” al dolce intermezzo acustico di “Little Lights”; dagli echi cavernosi e metallici di “III” ai riverberi ambientali di gusto espressamente cinematografico (dronici in “Nulla Desiderata”, ripetitivi in “Banquet”). Tutti elementi che galleggiano sulla durata media dei due minuti primi, a costituire lo strato connettivo del disco: anzi, a un primo ascolto più che fastidio o senso di superfluo, queste tracce possono appena suscitare una certa indifferenza, ma ciò accade solo perché l’attenzione si concentra sui cinque pilastri che del disco costituiscono lo scheletro portante, per ragioni di lunghezza ma anche d’intensità. Ascoltando l’album con più attenzione, invece, si percepisce l’importanza di questi bozzetti, in ragione della capacità che hanno di raccordare le istanze proposte e di creare il climax più adatto a migliorarne la carica espressiva, per un progetto che acquista una propria organicità, se letto nel suo complesso.

Difficilmente si potrebbero, del resto, coniugare pezzi di rock vocale come “The Devil Bends”, con brani più (banalmente, forse) post-rock, dal divenire inaspettatamente esplosivo alternato a intermezzi di liquidità apparente ("Zabriskie Point"), per giungere al pezzo conclusivo "Bandicoot", di nuovo contraddistinto, nel suo inizio, da pochi svolazzi di sottofondo, sul genere del commento cinematografico di lunga durata, ma poi animato da un fremito ritmico, leggero all’inizio a conferirgli un sapore quasi esotico, e in crescita nel finale di stile shoegaze, fino a rasentare toni epici. Discorso a sé va fatto per la splendida “Departure Gates”, caso unico nel disco di riuscita sintesi chimica delle diverse intelligenze coinvolte: tra pennellate bucoliche, crescendo d’archi e di droni, beat elettronici, sviluppo ritmico pop-rock talora profondo talaltra easy listening, e melodia dal motivo dolcemente circolare prende forma un miscuglio ben dosato di panorami elettro-ambient e di voglia di far suonare forte gli strumenti, con le due vesti della band che diventano una sola, gettando forse – chissà - un seme per un prossimo costruttivo approfondimento di questa collaudata soluzione.

Comune denominatore di tutto il disco, e significativo elemento di giudizio nel trattamento di una opera altrimenti riconducibile al collage, è comunque la sorprendente fluidità del lavoro, vario e ricco di slanci spesso imprevedibili, eppure sempre perfettamente inseriti nel contesto che il trio australiano ha saputo costruire a contorno, con tratto leggero ma già persino calligrafico, per una band pur sempre al suo album d’esordio. Un debutto, quindi, senz’altro singolare, ma già ricco di favorevoli auspici.

11/06/2009

Tracklist

  1. Slow Jet
  2. Okono
  3. The Devil Bends
  4. III
  5. Zabriskie Point
  6. Nulla Desiderata
  7. Little Lights
  8. Departure Gates
  9. Banquet
  10. Bandicoots

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