Sembra abbia richiesto moltissime ore di registrazioni, mixaggio ed editing il nuovo lunghissimo lavoro di Gnaw Their Tongues, al secolo Maurice De Jong.
“All The Dread Magnificence Of Perversity” è un quadro espressionista ricolmo di simboli sonori, l’ennesimo assalto infernale in cui l’ascoltatore viene messo a duro prova, letteralmente bombardato da una musica che inghiotte, voracemente, detriti di metal estremo, industrial, fascinazioni gotiche, noise al vetriolo, corrosiva dark-ambient e texture classicheggianti.
Un caos polimorfo e vitalissimo, ma cui De Jong non sembra ancora riuscito a prendere le giuste misure. Se sulla violenza dell’impatto è quasi inopportuno discutere, ci sembra, infatti, che la sua brutale miscela sonora finisca quasi sempre per perdersi in un vicolo cieco, finendo per girare intorno alla sua stessa fisicità piuttosto che tentare, davvero, la carta di un sound veramente e liricamente “diabolico”, terroristico, distruttivo.
Nelle dodici tracce qui presenti (nove nella versione in cd), assistiamo, quindi, a una continua, inesausta devastazione, talmente eccessiva in certi momenti da rasentare il cliché di una furia fine a se stessa.
Apre “My Orifices Await Ravaging”, e sembra di assistere alla selvaggia deflagrazione sinfonica del corpo Khanate. La musica esplode in mille direzioni e la tavolozza muta costantemente i suoi colori di morte. Gli archi inviperiti, l’atmosfera thrilling e le nere ramificazioni di “Broken Fingers Point Upwards in Vain” e di “Gazing At Me Through Tears Of Urine” puntellano la discesa verso gli inferi. La rabbia e il disgusto del musicista olandese hanno dell’incredibile (“The Stench Of Dead Horses On My Breath And The Vile Of Existence On My Hands”, che ingloba un poema di Gustave Flaubert). Ma senza la giusta mediazione del raziocinio, si rischia di restare in balia delle loro inesplicabili leggi.
La bestia in gabbia schiuma ferocia: la psiche stravolta, il corpo inerte, come mostra “L’ange Qui Annonce la Fin du Temps”, tutta lavorata in controluce, tutta imbastardita da una tensione insostenibile.
Un disco talmente “denso” che si corre il rischio di non riuscire mai a decifrarlo del tutto. Potrebbe essere un punto a suo favore, anche se la sensazione è che si tratti, piuttosto, del segno più evidente della mancanza di una significativa capacità di sintesi. Quando ci si muove tra lente, interminabili discese all’inferno (“The Gnostic Ritual Consumption Of Semen As Embodiment Of Wounds Teared In The Soul”), invocazioni demoniache (“Thee, I invoke, Akephalou”) e baratri spalancati dinanzi ai propri occhi, quasi fossero trasfigurazioni del vuoto che incancrenisce l’esistenza dell’homo instabilis (“I Hear Only The Clanking Of The Scythe”), bisogna pur sempre essere degni comprimari di una messinscena così solennemente “terminale”.
11/09/2009