Progetto di lungo corso e già ben noto a quanti seguono con attenzione le vicende dei Sigur Rós, giunge al debutto discografico la collaborazione artistica - visuale prima ancora che musicale - tra Jón Þór Birgisson e il suo compagno Alex Somers.
Fatto transitare l'alias Riceboy Sleeps (al quale era stato accreditato il pezzo compreso nella raccolta benefica "Dark Was The Night") a identificare soltanto il titolo dell'album, Jónsi e Alex presentano con i soli nomi di battesimo un lavoro che, nel suo dichiarato intento ambientale, difficilmente può sottrarsi ad accostamenti con i passaggi più eterei e descrittivi dei Sigur Rós.
Frutto di una prolungata elaborazione, "Riceboy Sleeps" è un'opera di tutta evidenza concepita attraverso l'intersezione di due piani differenti ma non separati, il parallelismo tra i quali è ben esemplificato dalle peculiari modalità realizzative: il più cospicuo impianto acustico del lavoro è infatti stato registrato in Islanda con il supporto delle Amiina e del coro Kopavogsdætur, mentre l'elaborazione digitale ha avuto luogo in un angolo sperduto delle Hawaii.
Anche in questo caso i contesti di realizzazione sembrano aver rivestito un ruolo non trascurabile, poiché la costante idea di flusso sottesa alle nove lunghe composizioni racchiuse nell'album risulta enfatizzata non solo dalle abituali brume islandesi ma anche da sensazioni impalpabili, che lasciano filtrare un perenne stato di contemplazione di paesaggi astratti e sconfinati. Ambient music secondo l'accezione più classica del termine, si direbbe, e in effetti così è per l'intera durata di un album uniforme e tuttavia puntellato da una pletora di crepitii, pulsazioni ed esili distorsioni. È il susseguirsi di questi elementi, disseminati con parsimonia lungo tutto il corso del lavoro, a sottrarlo a modalità espressive troppo prevedibili, poiché lo stesso importante contributo della Amiina si traduce più spesso in una sorta di coltre orchestrale, sotto la quale brulica una miriade di microsuoni, che non nell'abituale soffuso romanticismo, qui percepibile quasi esclusivamente nel brano d'apertura.
Altrove, pur restando ferma l'onirica solennità delle tessiture di fondo - organiche o elettronicamente filtrate che siano - i suoni acustici, le partiture d'archi e le stesse sparse note pianistiche tracciano i contorni di stratificazioni lievemente irregolari, ora addirittura allucinate ("Daniell In The Sea"), ora protese in impercettibili crescendo, che pure non culminano con le esplosioni di rito, attestandosi invece sotto forma di modulazioni cangianti ("Atlas Song") o dense patine di frequenze basse e stranianti ("Howl").
Allo stesso modo, anche cori e vocalizzi non sono intesi a seguire melodie invero talora quasi del tutto assenti, presentandosi piuttosto sotto forma di frammenti, schegge inserite su un substrato visionario intessuto di saturazioni orchestrali e vivificato da continui soffi e beccheggi, sovente giustapposti in luogo di battiti, a fungere da elementi evolutivi di brani spesso tendenti alla stasi.
Considerato nell'interezza della sua impegnativa durata, "Riceboy Sleeps" sembra quasi percorrere un percorso a ritroso rispetto alle più recenti prove dei Sigur Rós, ma non ancora del tutto definito in termini di stretta aderenza ovvero in quelli di completa autonomia. Da un lato, l'album presenta solo in parte una scontata continuità con le atmosfere più morbide e sognanti della band, atteggiandosi piuttosto quale un progressivo processo di affrancamento, che trae origine dal comune romanticismo di "Happiness" per pervenire alla consistenza granulare e alle screziature rumoriste di "Sleeping Giant"; dall'altro, tale percorso non consegue ancora un risultato integralmente convincente, poiché la puntuale elaborazione delle composizioni ne riduce in misura significativa il potenziale d'impatto, lasciando una diffusa sensazione di cerebrale (e con ogni probabilità ricercata) incompiutezza.
E anche se la presenza di Jónsi costituisce elemento di sicuro richiamo e inevitabile fonte di accostamenti, dall'ora abbondante di "Riceboy Sleeps" può davvero scorgersi l'alba di un nuovo progetto nel quale possa trovare espressione un aspetto già abbastanza ben delineato di una personalità artistica complessa. Non un disco in grado di suscitare suggestioni coinvolgenti e tuttavia lungi dal poter essere liquidato quale mero riempitivo in forma di divagazione dalla band principale: non esattamente un ágætis byrjun, ma un esordio meritevole di attenzione, se non altro per la volontà ad esso sottesa di elaborare linguaggi musicali parzialmente diversi.
19/07/2009