Un nuovo disco di Bruce Springsteen a poco più di un anno di distanza dal precedente? “Yes, we can”… Il tempo dei lunghi silenzi discografici sembra ormai finito, per il rocker americano: galvanizzato dall’avvento dell’era Obama, Springsteen cede alla tentazione di dare voce al proprio personale inauguration address. Il senso amaro di tradimento che percorreva la riflessione sull’America di “Magic” lascia così il posto ad un ritrovato “I have a dream”: l’entusiasmo dei sogni, però, da solo non basta e “Working On A Dream”, nonostante la coincidenza tutt’altro che casuale con il cambio della guardia alla Casa Bianca, non riesce a riscattare gli scialbi risultati dell’ultima prova al fianco della E Street Band.
Tutto nasce da una canzone registrata quasi per caso durante le ultime settimane di lavorazione di “Magic”, una robusta ballata dal passo alla Tom Petty intitolata “What Love Can Do”. “Era una sorta di meditazione sull’amore al tempo di Bush”, racconta Springsteen. “Suonava più come la prima canzone di un nuovo disco che non come qualcosa di adatto a “Magic”. Così, il nostro produttore Brendan O’Brien ha detto: Hey, facciamone subito un altro!”. Ecco allora prendere forma un pugno di brani scritti di getto ad Atlanta in coda alle session di “Magic”, che vengono portati a termine nel corso del successivo tour con la E Street Band.
Ma non si tratta di una semplice raccolta di scarti del disco precedente: “Working On A Dream” si spinge in una direzione diversa e per certi versi inedita nella discografia springsteeniana. Laddove “Magic” cercava di aggiornare il wall of sound chitarristico di “Born To Run”, senza tuttavia riuscire a ritrovarne il pathos e l’ispirazione, il nuovo album sceglie di avventurarsi in un classicismo pop dalle aperture liriche, che adotta Elvis Presley e Roy Orbison come numi tutelari. A mancare, però, è quella sottile grazia capace di salvare l’ambizione dalla caduta nell’enfasi.
Prendete l’iniziale “Outlaw Pete”, che con i suoi otto minuti di durata punta ad un’epica western dal sapore morriconiano: quel motivo infarcito d’archi, che ricalca nientemeno che i Kiss di “I Was Made For Lovin’ You”, finisce per svuotare di intensità la trama, privandola di tutto il suo spessore. Lo stesso vale per “This Life” e per l’ode alle cassiere di “Queen Of The Supermarket”, che ripartono dalle atmosfere di “Girl In Their Summer Clothes” per inseguire armonie barocche alla Brian Wilson, ma si ritrovano a naufragare in una cornice di cori stucchevoli. La E Street Band si distingue a malapena, la produzione di Brendan O’Brien plastifica ancora una volta ogni sfumatura. E “Kingdom Of Days” sfoggia il peggio delle svenevolezze melodiche dello Springsteen degli ultimi tempi, scivolando in toni kitsch paragonabili solo a quelli dell’immagine di copertina del disco.
Meglio rivolgersi allora agli episodi più consoni alle corde di Springsteen, dalle asperità blues della rauca “Good Eye” fino allo scalpitare di chitarre, organo e pianoforte di “My Lucky Day”, che sembra ritrovare per un attimo uno slancio degno dei tempi di “The River”. “Working On A Dream” è un juke-box fin troppo variegato e discontinuo, capace di alternare il power-pop remmiano di “Surprise, Surprise” alla retorica della title track, la leggerezza country di “Tomorrow Never Knows” ai chiaroscuri in stile “Tunnel Of Love” di “Life Itself”. Ma è solo quando Springsteen torna a mettere a nudo la propria stoffa di songwriter che si respira una reale forza espressiva, come nel commiato di “The Last Carnival”, ultimo ricordo dedicato alla scomparsa del vecchio compagno d’avventura Danny Federici, o nella bonus track “The Wrestler”, già vincitrice di un Golden Globe per la colonna sonora dell’omonimo film di Darren Aronofsky.
“Il passato non è mai passato. È sempre presente, lo porti sempre con te”, afferma deciso Springsteen. “Sono i tuoi peccati. È meglio imparare a conviverci, imparare la storia che raccontano. Perché sussurrano all’orecchio il tuo futuro, e se non ascolti sarà contaminato dal veleno del tuo passato”. Non si può costruire il futuro senza avere fatto i conti con il passato: Pete il fuorilegge aveva provato a sfuggirgli, ma il destino è tornato a stanarlo. E di fronte agli occhi di Dan il cacciatore di taglie ha dovuto guardare in faccia la realtà: nessuno può sfuggire a sé stesso. “We cannot undo these things we’ve done”.
È il tempo il vero protagonista di “Working On A Dream”: il tempo che scorre inesorabile, il tempo che sembra consumare ogni cosa. “With you I don’t hear the minutes ticking by”, canta Springsteen alla soglia dei sessant’anni in “Kingdom Of Days”, “I don’t feel the hours as they fly / I don’t see the summer as it wanes / Just a subtle change of light upon your face”. Solo la compagnia di una presenza amata può restituire un senso allo svanire dei giorni. Solo la misteriosa essenza dell’amore può ridare speranza ad un animo schiacciato dal peso dei propri peccati. “Here we bear the mark of Cain / But let the light shine through / Let me show you what love can do”.
“Working On A Dream” ha una maggiore dose di coraggio rispetto a “Magic”, ma nonostante la solidità di alcuni momenti incappa in una serie di inciampi ancora più difficili da perdonare. “Tell me, friend, can you ask for anything more?”, si interroga Springsteen in “The Wrestler”. Sì, Bruce, si può chiedere di più: si può sognare un disco che sia di nuovo all’altezza di una delle voci più sincere della canzone americana. “Though sometimes it feels so far away, I’m working on a dream”.
23/01/2009