Il successore di “The Patron”, “Marlone” è per i To Kill A Petty Bourgeoisie un po’ un disco raccoglitore. Tra il “Patron” e il “Marlone” sono intercorsi due anni quasi giusti; in questi due anni il duo minnesotano ha anzitutto avviato con coraggio un’attività live di una certa intensità, che li ha portati - con Boduf Songs come spalla - in Italia per ben due volte. Quindi ha modellato la sua conformazione, che rimane ancora saldamente imperniata su Jenha Wilhelm e Mark McGee, attorno a un’idea che ammicca alla band vera e propria. Di ciò risente “Marlone”, un disco aperto, organico e persino musicale, se confrontato con la violenza cinica del debutto.
“Marlone” da una parte cambia il regolamento del loro sound, dall'altra imposta un "Patron 2". Le loro "canzoni" diventano quindi preghiere, madrigali, canti di frontiera, cantilene drammaturgiche, serenate industriali. "Along The Line" è il più fulgido esempio di questi montaggi sonori di complessità stupefacente che tutto avvolgono, tramite intro dark-ambientale, ritmo dub smaterializzato in folate dreamy e mantra angelico-tribale. "Villain" abbina apici di drammi elisabettiani a salmi di voci, fruscii elettronici e contrappunti di cello, come uno Shakespeare nottambulo che si aggiri nel set di "Twin Peaks". E in "I Hear You Coming, But Your Steps Are Too Loud" i palpiti cupi sembrano condividere le intonazioni elegiache del canto (che per contro è quasi in sordina). "Summertime", pervasa da ogni tipo di linfe e rigagnoli elettronici, e il suo battito industriale "romantico", fanno da portantina a una cantata accorata di chiusa.
Un lacerto di finta gaiezza ("In Peoples' Homes") prelude ai 9 minuti di “Turritopsis”: un battito hip-hop distorto e riverberato, frasi di puro feedback e una caciara noise-electro si ampliano a visione immane in cui gli echi della voce della Wilhelm sono ormai trasfigurati in pura essenza sonica.
Escursioni stilistiche come “Bridgework”, affogata in spasmi e fanfare religiose, mischiano i segni noir, le colonne sonore atmosferiche e le strutture shoegaze, e “You've Gone Too Far” sta a metà via tra noir, trip-hop e la "Careful With That Axe Eugene" Floyd-iana. “I Will Hang My Cape In Your Closet” traduce in senso terrestre un linguaggio rock proveniente da altre dimensioni con un detto catalettico di chitarre con riflessi acquatici e accompagnamento rallentato d'organismo elettronici e battiti compositi, e crescendo di voci invocanti. “The Needle” inquina di fitte tremende un canto gregoriano-cinese (a loro volta introdotte da un'atmosfera simil-"Ok Computer"), aggiungendovi in coda 2 minuti di post-rock dissonante.
Luminoso in tutto il suo insieme. Non è, tanto, il misterioso formato di quasi-complesso (Jason Wasyk, Aaron Finch, Andy Clayton, Jesse Ackerley, Andrew Berg, Tom Helgerson) a insuperbire il disco, quanto la produzione, quella stessa produzione che ha esaltato i dischi del passato quando si trattava di passare al compromesso. Ma qui il contenuto scala alto, e ha uno spessore artistico-letterario paragonabile alle antiche farse; i riferimenti sono manipolati con intelligenza tale da evitare qualsiasi pastoia cartapestacea, i dettagli cesellati con tatto crucciante.
Preceduto da nuove uscite su corta distanza: un tour cd tutto per l’Italia (uscito nel marzo 2008, autoprodotto), e un paio di split (Harm Stryker, Cristal).
30/09/2009