I tedeschi Milhaven continuano a farsi strada nella scena musicale comunemente (e ormai con troppa leggerezza) definita post-rock: e lo fanno coraggiosamente, poiché trattasi di un genere che spesso si considera pressoché esaurito, nel cui ambito pochi gruppi hanno scritto la storia alle soglie del terzo millennio – mentre molti altri hanno cercato di seguirne le orme, troppo spesso emulandoli più che traendone spunto. E se da un lato è vero che le occasioni in cui ci si può ancora stupire vanno diminuendo, è altrettanto indiscutibile che il fascino di un disco ben fatto non conosca predecessori e derivazioni.
Così, senza alcuna pretesa, i Milhaven riescono a comunicare e comunicarsi ricorrendo a una formula equilibrata, evitando di ricadere nella stanchezza di chi, a loro differenza, confeziona musica sulla base di idee già collaudate. Questo self-titled è il loro secondo Lp ed è indice di uno stile consolidato e personale, messo a punto negli otto anni che lo separano dalla loro precedente fatica.
Pur non proponendo nulla di veramente nuovo, i suddetti riescono a dare il loro meglio negli otto brani dell’album per mezzo di un suono cristallino e mai troppo sommesso, dove il dialogo tra le chitarre e una ritmica spigliata ridà respiro alla tradizione “epica” dei primi anni Duemila. Come nell’ultima deriva dei Red Sparowes, i Milhaven scelgono la spontaneità e non forzano mai i tempi dello sviluppo melodico, concatenando i vari episodi in una successione godibile. Le piccole eccezioni che fanno la differenza.
22/07/2010