Un passato in un'improbabile band surf-punk, qualche timido tentativo cantautorale e, finalmente, una nuova dimensione che esplora tante diverse sfaccettature del pop, in un omaggio sincero e appassionato. Questa, in breve, la parabola di tale Jack Tatum, musicista originario della Virginia che con l'esordio del suo ultimo progetto solista denominato Wild Nothing va ad ascriversi nell'ormai ampio novero di artisti che rivolgono il proprio sguardo all'indie-pop chitarristico degli anni 80, con una freschezza tale da oltrepassare di slancio i rischi di una sterile calligrafia.
Ascoltando le dodici tracce di "Gemini", si può immaginare Tatum impegnato in solitaria nel suo garage, a divertirsi nel maneggiare chitarra, basso, tastiere e drum machine e, a qualche metro di distanza, la sua camera dagli scaffali stracolmi di dischi dei Cocteau Twins, dei New Order, dei My Bloody Valentine, dei Cure, dei Field Mice e di qualche altra pubblicazione della Sarah Records. La prima istantanea è senz'altro verosimile, come si desume dall'assoluta individualità del progetto Wild Nothing e dall'estetica casalinga e in media fedeltà dell'album; la seconda può solo arguirsi, ma non dovrebbe essere molto lontana dal vero, viste le molteplici mutazioni di prospettive e ipotetici riferimenti passate in rassegna con repentina naturalezza dalla tracklist di "Gemini".
Nel corso dell'album, si susseguono senza sosta frammenti melodici calati di volta in volta in dilatazioni sognanti, eteree cascate di chitarre e/o tastiere, pulsazioni elettroniche e riverberi policromi, che incorniciano canzoni incentrate su una filosofia post-adolescenziale malinconica che pervade anche i passaggi più estivi e in apparenza spensierati della consapevolezza della fugacità del momento. Non a caso, Tatum getta da subito le carte sul tavolo, cantando con voce uniforme e trasognata "Our lips won't last forever/ and that's exactly why/ I'd rather live in dreams/ and I'd rather die" sul tessuto ricco di riverberi e dilatazioni dell'iniziale "Live In Dreams".
Quando già si potrebbe pensare di essere in presenza dell'ennesima operazione nostalgica dei primi My Bloody Valentine, Tatum dimostra quanto ampio sia il ventaglio delle sue fascinazioni eighties: il jangle-pop di brani briosi e dal passo svelto quali "Summer Holiday", "O, Lilac" e "Chinatown" scolora, infatti, agilmente in echi e toni eterei, al più solcati dal battito invariato della drum machine o da tastiere vivaci ("Drifter", "Bored Games"), fino a fondersi con folate oscure che a tratti rimandano a "Disintegration" (la title track finale e "Confirmation ") e rispetto alle quali ritmiche e melodie viaggiano su binari quasi totalmente indipendenti ("The Witching Hour").
Benché a tratti "Gemini" non si collochi poi così distante dalle altre valide rivisitazioni dei suoni degli anni 80 condotte ad esempio da The Pains Of Being Pure At Heart o dagli ultimi Radio Dept., il variopinto caleidoscopio riassunto da Jack Tatum in "Gemini" rivela una genuina indole pop, che proprio nel continuo rimescolamento dei suoi elementi casalinghi trova l'ideale viatico per scongiurare appiattimenti emulativi.
In "Gemini", all'immediatezza del suono corrisponde fedelmente quella di melodie che in più di un'occasione riescono subito a colpire nel segno, rinverdendo l'imperitura magia di quell'indie-pop fuori dal tempo che in Jack Tatum può aver trovato un nuovo, brillante interprete.
27/06/2010