Cosa aspettarsi da "We're All Dying To Live" è chiarissimo fin dalla copertina. Ma lo sarebbe ancora di più se da qualche parte ci fosse il sottotitoletto: "Illinois, part 2".
La recensione dunque potrebbe/dovrebbe finire qui: giusto un paio di note biografiche (Rich Aucoin, canadese di Halifax, età tra i venti e i trenta, due Ep alle spalle) e siamo già pronti ad archiviare questo clone di Sufjan Stevens, per passare al prossimo.
E invece no. Perché il disco è bello, è strano, e ricco di spunti. Merita che se ne parli e perfino - udite udite - che lo si ascolti. Catapultatevi allora su Bandcamp, schiacciate play e mettetevi comodi: andiamo alla scoperta di questo piacevolissimo guazzabuglio.
Il signorino Aucoin ha fatto le cose in grande. "The Morning Becomes Eclectic", la prima traccia, è una overture strumentale con fiati, sitar, pianoforte a pedale abbassato, mellotron o chi per esso e un piglio Arcade Fire/festante che non lascia dubbi sul livello di grandiosità sfoderata dal disco. D'altra parte, la monumentalità fa parte del progetto: tre anni di lavoro, un film di un'ora sincronizzato alla musica, più di 500 musicisti coinvolti, sparsi per tutto il Canada.
Condivisione e collaborazione sono le parole magiche che hanno reso possibile l'impresa. I musicisti sono stati selezionati secondo la logica del "chiunque voglia partecipare è ben accetto": ci son finiti dentro dunque cori, jazzisti, musicisti classici, bimbi delle elementari, bande di paese, membri e collaboratori di Arcade Fire, The Besnard Lakes, Feist, gente della Arts&Crafts e chi più ne ha più ne metta (la lista completa è ancora sconosciuta). Il super-video che accompagna il disco, poi, è stato realizzato unendo spezzoni di quaranta film di pubblico dominio (per decadimento dei diritti d'autore, o perché protetti da Creative Commons).
Ma dicevamo delle tracce, più di venti, che compongono il disco. Tutto questo bel parlare di cooperazione avrà suggerito che lo spirito è quello della nuova coralità: così infatti è, ma le sorprese non mancano. Il ventaglio stilistico è impressionante, e il disco pare andare a mille giri. Ai prevedibili riferimenti a tutti i più tintinnanti ottimisti neocorali, si aggiungono maestri del pop colorato di ogni epoca: Beach Boys, Elo, Mgmt, Flaming Lips, ma anche Daft Punk e - palesemente - Justice.
"Brian Wilson Is A.L.i.V.E.", con coretti di bambini, bassone superfunky, battiti di mani sintetici e archi disco sparati nella stratosfera pare in effetti un'outtake di †; e non è mica tanto strano, visto che Aucoin ha voluto al suo fianco lo stesso uomo per il mastering, Nilesh Patel. E "P:U:S:H", non ricalca spudoratamente "Harder, Better, Faster Stronger"? Sì, ma il tripudio di broken beat, lì e altrove, pare più roba da Beck.
Nomi, nomi, nomi. Basta, ne ho fatti troppi. La cosa non rende onore a un disco che è fatto soprattutto di grande personalità (camaleontica, trasformista, kitsch, ma pur sempre personalità) e talento musicale. I pezzi fluiscono l'uno nell'altro, hanno arrangiamenti caleidoscopici ma impeccabili, sono un continuo uno-due di melodie da k.o.
Non sperate di ricordarvene una - quello no; non c'è il tempo di sedimentare un ritornello che subito arriva il successivo. E quando non è il tema a cambiare, è l'arrangiamento che spiazza: tanti pezzi sono sequele di voltafaccia musicali e non importa se non hanno un capo e una coda, sono perfetti così. Poi però arrivano quei cinque/sei/dieci pezzoni che superano la fatidica soglia dei tre minuti e fanno andare ogni cosa a fuoco. Prova ne sia, per dire, la suite "Undedad", che fa festa trascina entusiasma e non sta ferma un attimo.
C'è di tutto in quest'album, non si riesce a stargli dietro. Una cosa, però, manca del tutto: la malinconia. Caso più unico che raro, "We're All Dying To Live" è indie-pop all'insegna dell'ottimismo più sfrenato. Una boccata d'ossigeno, in tempi come questi.
01/12/2011