Sono in quattro, si muovono compatti come una vera famiglia, debuttano con un prodotto agile, entusiasta, galvanizzante, con il dono della concisione che preserva il tutto da una certa ripetitività di fondo. Siamo nei trendissimi (da ormai un decennio!) ambiti post-punk-wave, di matrice chitarristica, molto affilata ma non disturbante, con synth rumorosi che affiorano qui e là.
Dieci brani talmente omogenei che si fa fatica a distinguerli tra loro, semplicemente ti arrivano in faccia come un vagone e ti travolgono, lasciandoti tra lo stupefatto, il disinteressato, il contento e l'annoiato. Difficile scorgere una ricerca armonico-melodica, la differenza la fanno l'approccio ritmico, l'impeto e le figurazioni di stampo geometrico - una sorta di math-pop il cui manifesto assoluto potrebbe risultare la title track, posta intelligentemente in apertura, un miscuglio irrefrenabile di movimenti ora robotici, ora spezzati, ora deflagranti, ora trattenuti, come un inno negato e risucchiato dalla foga batteristica mentre in sottofondo resiste teso e determinato il riff della chitarra acustica, tutto all'unisono.
Schegge impazzite da cui scaturiscono presupposti melodici solo accennati, come in "Human Elevator", addolcita in sottofondo da una linea di synth che dona respiro e spinge al coro, un'urgenza che non viene mai meno anche nei momenti di apparente calma piatta, come nell'inizialmente soffusa "Palace And Run", disintegrata da un finale urlato. C'è un trasporto tribale di fondo che lascia stupefatti e contusi più che ammaliati, genera rispetto più che entusiasmo. Un andamento baldanzoso, asimmetrico, condotto con mano sicura, talvolta sin troppo abile, quasi arrogante, sordo a ogni tipo di consiglio, che poi sarebbe quello di variare un po' il sapore della pietanza. Ma non c'è tempo: i tipi son già partiti per la tangente, pochi attimi e non li scorgi più all'orizzonte, vedi solo polvere e macerie. Per la ricostruzione non ci sono assicurazioni. Dell'oggi c'è solo una certezza: "They Call It A Race".
(11/07/2012)