Invito a cena con sorpresa. Tra i commensali la statunitense Tori Amos, gli australiani Dead Can Dance e magari anche gli inglesi Portishead al gran completo. A capotavola El Perro Del Mar, nata a Gothenburg come artista prettamente su Cdr e mp3. La proposta sonora del cane del mare non sarà quindi certamente incline né a Mike Patton né a Burzum, ma in questo nuovo capitolo della sua oramai quasi-decennale carriera si trova a dimostrare di non avere più alcuna paura a giocare anche con il lato oscuro del mainstrindie.
Era il giugno del 2006 quando usciva l'omonimo “El Perro Del Mar”: “raffinata calligrafia pop della svedese” nelle parole del preciso Davide Campione. Un'abile tessitura del tenue verbo di Isobel Campell in chiave Radio Dept. che seppe conquistarsi voti scoppiettanti un po' ovunque. Senza bisogno di fare nomi. In questo lasso di tempo, tuttavia, lo scenario musicale è cambiato considerevolmente: c'è stato l'exploit di Zola Jesus, e il mondo ha scoperto quel piccolo genio sconvolto di Soap & Skin. E' come se le lancette dell'orologio avessero completato il giro, arrivando a varcare abbondantemente la soglia della mezzanotte. La domanda, quindi, allo stato attuale è: El Perro Del Mar ha saputo farsi trovare pronta all'alba del nuovo giorno?
Non proprio. “Pale Fire” è qui a cercare di dimostrare (fin dalla copertina e da tutta l'estetica che lo accompagna) il contrario, ma ci riesce solo fino a un certo punto. Per metà. Quella che vuole Sarah Assbring molto attiva nella sua costante ricerca di nuove variazioni sul tema base, quello tra sogno ed elettronica che l'ha sempre caratterizzata, per scrivere, arrangiare e registrare un nuovo disco. Se l'omonimo poteva quindi dirsi una summa di Isobel Campbell e Radio Dept, come già scritto; “From The Valley To The Stars” miscelava Jens Lekman a Portishead; e “Love Is Not Pop” era Cure in salsa Eurythmics; questo album ricorda una Sinéad O'Connor in chiave Bat For Lashes. O giù di lì. Intrigante, sicuramente. Ma è la qualità stessa della scrittura a non incantare più come un tempo, bloccata com'è agli standard, seppur alti, che ormai ci si aspetta da questo bislacco moniker.
Il resto sono dieci tracce che ruotano nuovamente nel suo fantasmagorico mondo fatto di mainstream sfiorato con umbratili arrangiamenti, secondo lo stile imperante (“Hold Off The Dawn”, "To The Beat Of A Dying World"), eterei racconti in chiave dream-pop (“Love Confusion”, "I Was A Boy"), omaggi jazzati o reggae sensibilmente fuori luogo (“Walk On By”, stranamente scelta come primo singolo, e "Love In Vain"), riletture del verbo altrui in chiave personale (“Home Is To Fell Like That”), tentativi di neo-paganesimo credibili fino a un certo punto (“I Carry The Fire”, "Dark Night"). Insomma, un guazzabuglio di canzoni un po' fine a sé stesso che mischia l'approccio artistico a quello ruffiano, creando un vortice irresistibile per chi magari erano tre anni che l'attendeva prendere nuovamente forma, ma un bel po' meno per tutti gli altri.
13/11/2012