Non serve di certo disporre di chissà quali nozioni di anatomia per sapere come le ossa costituiscano l'impalcatura, l'elemento portante su cui poggia l'intero corpo umano. Trasferendo il discorso sul piano musicale, sono stati in tanti, se non in tantissimi, coloro che si sono cimentati nella difficile impresa di tradurre con le sette note l'equivalente sonoro di ciò che è il sistema scheletrico per il nostro organismo. Non si tratta, quindi, soltanto di un'operazione di indagine a favore dei tratti fondanti e imprescindibili di un suono, ma anche uno studio approfondito su quanto quel determinato suono riesca a farsi promotore, o meglio ancora punto di partenza, per costruzioni più elaborate o caratteristiche. In tanti ci hanno appunto provato, la gran parte ha fallito miseramente, senza possibilità di riscatto alcuno.
Non sembra essere questo, fortunatamente, il caso dei Fenster, tra gli ultimi acquisti della beneamata etichetta tedesca Morr, responsabile di alcune tra le più rimarchevoli manifestazioni della scena elettronica europea dell'ultimo decennio. Teutonico come la loro label, ma dalle ascendenze anche a stelle e strisce, il terzetto, formato da JJ Weihl, eccentrica ragazzotta, e due baldi giovini, tali Jonathan Jarzyna e Rémi Ritournelle (l'ultimo arrivato nella formazione), giunge, dopo l'incisione di un solo sette pollici la scorsa annata (“Oh Canyon”), alla pubblicazione del suo primo disco sulla lunga distanza, ed è amore a primo ascolto.
Denominato - guarda che coincidenza - “Bones”, l'album rifiuta categoricamente ogni forma di abbellimento e rifinitura, puntando invece dritto al sodo, a trarre il massimo risultato possibile col minor numero di costituenti messi in campo. Mera pigrizia? Decisamente no, e i brani stanno lì a dimostrarlo, nel loro minimalismo autorale, ma soprattutto, nella loro amplissima varietà tematica e cromatica. Perché operare di sottrazione, spesso e volentieri, mette in evidenza le caratteristiche e le peculiarità di ogni singola canzone, piuttosto che ricondurle tutte quante ad un tratteggio stilistico comune.
E i signorini centrano pienamente l'obiettivo, niente riesce a ostacolarli nel loro intento: merito della formazione musicale dei tre, tutti quanti abili polistrumentisti, e della dolce sfrontatezza con cui riescono a cambiar d'abito per ogni brano, senza mai abbandonare il placido e confortevole tepore delle proprie mura domestiche. Il taglio del suono, felpato e ovattato, proietta il loro parco songwriting verso dimensioni surreali e soavi.
Viene da pensare alla timida riservatezza degli Young Marble Giants, e non si cade minimamente in errore: i Fenster ne condividono lo stesso basso profilo, la medesima sobrietà votata ad un'essenzialità programmatica e introversa, finanche la stessa composizione della band (una femmina, e due maschi a fiancheggiarla). Nelle arterie dei Tedesco-Americani non scorre però il lascito del post-punk; i fraseggi di basso vengono ridotti al minimo indispensabile e il loro universo guarda più alla briosa effervescenza di certo pop alternativo che a inquieti scenari da dopo '77. S'attacca con la sopra menzionata “Oh Canyon”, e non si riesce più a trovare la via del ritorno, persi in un ritornello e in un giro di chitarra che definire appiccicosi suona quasi eufemistico.
Ma ancor più che costruttori di deliziosi refrain che non ti si schiodano dalla testa (effettivamente pochi, benché riuscitissimi), i tre sono validi descrittori dei più vari e disparati d'animo, rammentati, più che attraverso cambiamenti nelle inflessioni vocali, mediante un costante avvicendarsi di pensate sempre diverse dal punto di vista compositivo, senza che l'assieme appaia come un gigantesco cumulo organizzato alla meglio e peggio.
Dallo spleen quietissimo di “Blue To White”, malinconia che si consuma, piano piano, nella propria cameretta, alle venature beachboysiane di “Killer Surf Walker”, passando per i tersi field-recording su cui si basa l'assetto della deliziosa ninna-nanna “Golden Boy”, è sempre un sentore di trasognata nostalgia (loro la definiscono futuristica) quello che si coglie da ogni nuance, da ogni singolo dettaglio, dalla “mansueta irrequietezza” con cui i Nostri cantano di sogni e relative disillusioni, speranze, ricordi persi nei meandri della memoria, abbandoni e tragiche fatalità (il narcolettico estinguersi di “The Hunter”, sussurrata nenia dal tiepido profumo folk, ne può essere un'evidente dimostrazione).
Nella coralità ciondolante della conclusiva “Gespenster”, ma ancor di più, nei suggestivi richiami elettrici messi a coda di una diafana marcetta come “Spring Break”, il trio accenna però di saper trattare con grande esperienza anche materiale alquanto lontano dai propri riferimenti stilistici, lasciando presupporre in tal modo ipotetici binari sui quali lasciar correre il proprio demone creativo. Speculazioni sul futuro a parte, non si compia l'errore di sottovalutare questo disco: estraneo alla stantia sensibilità agrodolce di molto indie-pop attuale, “Bones” è un piccolissimo, quanto abbagliante, gioiello di pregiata e inconsueta fattura.
03/10/2012