A volte l’onestà imbarazza, pare quasi un modo violento di trattare con gli altri. In “Joy And Better Days” di Hip Hatchet, moniker di Philippe Bronchtein, cantautore di Portland, Oregon, alla seconda prova, è un carattere distintivo, un segno sulla pelle, una ciocca bianca tra i capelli. Bronchtein orchestra intorno ad essa canzoni calorose, frutto anche del suo vocione Eitzel-iano, cantautore col quale condivide una grande classe, con questa sua maturità conquistata, evidentemente, molto presto.
Canzoni di strada (“Selfless In This Town”, “Sing Me A Reprise”), volendo archetipiche per il genere, ma che Philippe riesce a far risuonare delle sue esperienze, senza filtrarle attraverso i cliché della tradizione.
Niente di meglio può esistere, infatti, nella musica popolare, se non un racconto di vita che esprima sentimenti, appunto, popolari, comuni. E questi abbondano nelle canzoni di “Joy And Better Days”: “Simple, simple things/That others do to make us sing”, canta Bronchtein in “Antlers On The Wall”.
Il cantautore americano le tratteggia con un fingerpicking ispirato, che genera onde emotive col suo preciso sollevarsi ritmico, e che le aiuta a involarsi sopra invettive alimentate dall’alcool (“Second Pair Of Hands”). Non a caso il Nostro pubblica con la Gravitation, prima etichetta di The Tallest Man On Earth.
Domestico e familiare, “Joy And Better Days” mantiene però il carattere vivo di un reportage di un viaggio nell’esperienza, che a volte si fa davvero struggente, come nella dedica di “When I Sing For Strangers”. Non si offenderà Philippe Bronchtein se viene accusato di aver alzato di un paio di gradi la temperatura del pianeta.
12/12/2012