La prima volta che ho ascoltato Albert Ayler ho pianto. E, piangendo, non facevo altro che fare da controcanto all’atroce delirio del suo sassofono, vera e propria appendice della sua anima.
Così, la prima volta che ho ascoltato l’esordio omonimo dei King Tears Bat Trip, ho pensato: “ecco, ci risiamo… ancora Albert!”.
Fondato dal chitarrista, bassista e compositore Luke Bergman, questo settetto di Seattle (che definisce la sua musica psych-trend/post-drum circle) sembra abbia scelto il suo moniker pensando all’anima benedetta di Captain Beefheart, per cui le cose sono un tantino più complicate…
Ma andiamo per ordine.
Attorno alla “detuned guitar” di Bergman, sono raccolti quattro batteristi (Thomas Campbell, Kristian Garrard, Chris Icasiano e Evan Woodle), un sassofono tenore "heavy-distorted" (Neil Welch) e un Chango, “a video-audiolyzing synthesizer” o, meglio, un'interfaccia digitale capace di generare suoni creata da Brandon Lucia, anch’esso a bordo di questa carovana impazzita che ci scorrazza tra torride poliritmie afro-voodoo, rivoli acidissimi di noise liquefatto (l’interplay tra chitarra e Chango è sotterraneo, ma fa sentire tutta la sua forza espressiva quando serve…) e fanfare ultraterrene che cantano di uno “spirito santo” alla deriva.
“Stolen Police Car” inizia con gli strumenti che vacillano e si scuotono, vibrando di fervida attesa. Poi, le quattro batterie (che dal vivo sono posizionate rigorosamente in circolo) si lanciano in un assalto dalle epiche proporzioni, pestando fino allo sfinimento, mentre il sax di Welch (spesso doppiato dalla coppia Bergman-Lucia) intona un tema indelebile, evidentemente ispirato a quelli del genio di Cleveland alle prese con le marce bandistico-popolari, qui comunque colte da una prospettiva cosmica che rievoca il colossale “Karma” di Pharoah Sanders.
Lasciata sfogare in un’accentuazione sempre più assolutistica della sua forza propulsiva, la sezione ritmica si trasforma, gradatamente, in un multidimensionale tappeto di acciaio fiammeggiante, perfetto perché il sax possa continuare a vomitare sogni ed incubi, a sanguinare note come fossero lacrime, a urlare un’euforia che assomiglia sempre più all’orrore o, infine, ad essere egli stesso l’Orrore che danza nel bel mezzo di una cacofonia celestiale…
La sintesi tra uragano percussivo e folate elettrico-digitali (non è azzardato parlare anche di una discendenza Borbetomagus) si ripete nei diciotto minuti e rotti di “Elevenogram”, altra dirompente ipotesi di una Salvation Army presa in ostaggio da una tribù sub-sahariana. Improvvisamente, il babelico pandemonio lascia uno spazio tutto suo a Welch e alle sue strazianti grida fatte di sputacchi, metallo e fiato. Poi, una sinistra nube elettronica lo avvolge, mentre pelli e piatti sparigliano le ombre lasciando lentamente filtrare la luce. Ma è una luce che si manifesta oltre il miraggio di un’esplosione cavernosa, rigenerando l’arcano del ritmo e la bellezza annichilente del rumore che copula con la melodia.
La meta è un’estasi asfissiante, una sublimazione dionisiaca del caos, come se tutti i batteristi che, durante questi anni, hanno accompagnato gli Shit And Shine nelle loro folli performance dal vivo, avessero improvvisamente capito che, tribal-noise psichedelico, free-jazz o spiritual-trance, non è una semplice questione di note, quanto di sentimenti. E le urla liberatorie del finale non possono che confermarlo...
18/12/2012