Che Steve Adey amasse il silenzio e le pause armoniche era già evidente dalle prime note di “All Things Real”, ma che il nuovo album ne celebrasse le virtù non era del tutto prevedibile. Il musicista scozzese, alla sua seconda prova discografica (terza includendo il mini “These Resurrections”) ridefinisce leggermente i confini della sua proposta musicale.
Fermo restando il tono confidenziale e interiore della sua poetica, il suono si estende verso una dimensione più completa, accogliendo tutte le sfumature che nascono da una band stabile. Nonostante questo, “The Tower Of Silence” non cede neppure un briciolo della sua emotività in slow-motion: le canzoni restano sospese e impalpabili rifuggendo i canoni del cantautorato contemporaneo.
Abile pianista, innamorato dell’harmonium e del mellotron, Steve Adey si arrende anche al fascino della chitarra acustica di Ismael Florit in “Just Wait Till I Get Home”, senza comprometterne il tessuto glaciale e drammatico, ma anzi trascinando l’unico elemento umano e sensibile in una dimensione atemporale.
Ma è solo un attimo, e poi il monolite grezzo, edificato con residui di folk-blues, minimalismo neoclassico, elementi di musica barocca trasmigrati in una sensibilità pop, e una voce dai toni cupi, dà vita ancora una volta a un originale slowcore, che confonde speranza e malinconia.
Come i Low, i Talk Talk, Mark Kozelek e Will Oldham, il musicista di Birmingham crea con piccoli frammenti, spazi ampi dove celare armonie che prendono forma solo dopo ripetuti contatti. L’incanto che sprigiona “The Tower Of Silence” è frutto di un intenso legame tra testi e musica: quando le tastiere di Adey e la voce di Helena MacGilp celebrano l’inquietudine in “With Tongues”, le note successive che sgorgano da “Secret Place” hanno il sapore della pace e del silenzio.
Il silenzio: luogo virtuale dove l’umanità sembra risorgere per ripristinare i valori ancestrali che uniscono un uomo e la sua donna (l’amore e il lavoro quotidiano di “The Field”).
Il silenzio: luogo profano dove i morti vengono disposti a riposare in attesa di uccelli predatori (la Dakhma dell’India meglio conosciuta come “Tower Of Silence”).
Il silenzio: luogo surreale dove Jean vede il volto della sua donna amata mentre si tuffa nel fiume (scena del film “L’atalante” di Jean Vigo, che Steve Adey omaggia celebrando la bellezza dell’attrice nella sontuosa “Dita Parlo”).
Il silenzio: luogo sacro dove i musicisti hanno dato vita alle dieci tracce dell’album (la chiesa di Succleuch e di Greenside).
Sono dieci canzoni, quelle di “The Tower Of Silence”, ricche di sviluppi e simbolismi, in cui si può sorridere (“Laughing”), pensare al futuro (“Tomorrow”), perfino salutare la sofferenza e la malinconia con le seducenti parole di Alasdair Roberts (l’unica cover dell’album è infatti la sua “Farewell Sorrow”). Struggente, spirituale, la musica di Steve Adey incontra pochi ostacoli. La bellezza interiore si eleva sulle dicotomie umane: dall’orrore nasce lo stupore, dalla sofferenza fiorisce la speranza, trascinandoci in un luogo dove lasciar riposare i nostri pensieri in attesa che anime libranti li portino al cospetto del cielo.
Con “Tower Of Silence” il musicista scozzese riapre le porte del futuro al folk e alla musica popolare stravolgendone le vestigia sonore, e ci regala uno dei capitoli più intensi e poetici del 2012. Ma non chiamatelo songwriter.
01/11/2012