"Carson City, you took me away
from my wife and my kids that day
I've got debts that no man can pay"
He sang
And I felt that deep dark pain
da "Carson City"
Ci siamo già capiti: alzi la mano chi ne vuole ancora. La Yer Bird sa bene cosa vuole il suo pubblico: sentire un'anima che gronda attraverso poche note di chitarra, una voce risuonare di dannazione, di rimpianto, di un irresistibile slancio di apertura, oltre il "grande deserto americano".
Al di sotto di questo importante e insieme insignificante
moniker è Max Holmquist, giovane virgulto della scuderia di una delle più importanti etichette nel mondo cantautorale americano.
Uno e imponente è il merito fondamentale di Holmquist in questo "Carson City": avere inteso appieno la lezione di
Mark Kozelek, le sue composizioni apparentemente immote, un ripetersi ciclico che non stanca mai, perfettamente accordato com'è col mondo e con lo stato d'animo di chi lo guarda (la
title track è forse l'esempio principe).
Aggiungiamo a questo uno stile confessionale, un po' da vagabondo maledetto, alla
Micah P. Hinson ("Brother", "Bedsheets"), un po' da sciamano delle praterie - si veda l'ultimo
Elephant Micah in "Black Cadillacs" - ed ecco un'ennesima bella scoperta.
Manca forse qualche escursione dai temi di abbandono e perdizione - lirici e musicali - che contraddistinguono il disco, eccezion fatta per la fiaba sornionamente "torbata" di "Salesman", che ricorda
M Ward.
Ma che "Carson City" fosse un album senza compromessi si sapeva già fin dall'inizio: una volta accettato un passaggio da Max Holmquist, non si può più tornare indietro.
07/07/2012