Storico produttore e rapper inglese, figura chiave nella definizione del passaggio di consegne fra garage e grime nei primissimi anni Duemila, Richard Kylea Cowie aka Wiley rimane uno dei musicisti simbolo dell'hip-hop alternativo britannico, secondo per notorietà forse solo all'ex-compagno (nei Roll Deep) Dizzee Rascall. Esemplare del suo stile, denominato "eskibeat", è l'album d'esordio e vertice toccato fin qui "Treddin' On Thin Ice" (2004). Qui Wiley metteva perfettamente a fuoco la sua miscela di reminescenze drum'n'bass e jungle vecchia scuola, glaciali contrappunti elettronici, campionamenti astratti e raffinati, atmosfere notturne e stilizzate e rappin' istrionico e "spaccone". Negli ultimi, tuttavia, nonostante una produzione invidiabile per puntualità (sette dischi in sette anni), il Nostro sembrava essere rimasto un po' prigioniero di un limbo venutosi a delineare fra alcune malriposte ambizioni mainstream (il secondo posto nelle chart inglesi del singolo "Wearing My Rolex" del 2008 non verrà mai bissato nelle uscite successive) che gli hanno in parte alienato la simpatia della sua base più street e il rischio concreto di essere superato a sinistra dalle nuove leve post-dubstep.
Un pensiero, quest'ultimo, che forse ha sfiorato anche la mente Wiley suggerendogli un titolo a suo modo ironico e scaramantico come "Evolve Or Be Extinct" per il suo nuovo album. Un doppio, contenente la bellezza di 22 canzoni, con il quale l'"Eskiboy" non si accontenta di fare una semplice "inversione a u", tornando al sound delle origini, ma si sforza di offrire una panoramica che va dal passato remoto a quello più recente, nel tentativo di far convivere prurigini dance e radici grime.
Non manca praticamente nulla, a scapito, in alcuni tratti, della coesione fra le varie componenti e ognuno vi può facilmente rintracciare ciò che si aspetta da un tipo come Wiley: l'influenza jungle/jamaicana ("Welcome To Zion", "I'm Skanking"), le pulsazioni quasi house di "Boom Blast", le incursioni oldschool coi bassi spiralimorfi di "Scar", la robotica "Money Man", lo sketch musicale di "Can I Have A Taxi Please", i glitch e il ritornello ipnotico e scandito di "Weirdo", i beat lenti e disadorni dell'autoreferenziale "This Is Just An Album". Il tutto combinato con un attitudine da party un po' "piaciona" e da refrain estroversi e martellanti ( "Link Up", "Fire", "Daiquiries") e arricchito da brani più tirati e anfetaminici ("Ya Win Some Ya Lose Some", uno dei pezzi migliori in assoluto, la title track, "Highs And Lows").
Certo, anche il formato doppio non aiuta Wiley ad evitare di disperdere il ritrovato furore creativo in soluzioni un po' avulse e tutt'altro che indimenticabili (il pop-urban di "Only Human", che letteralmente sembra saltato fuori da un altro disco, o le poco più accettabili "Confused" e "Life At The Sea"). Ne scaturisce comunque un lavoro sorretto da un encomiabile lavoro di produzioni e animato da una ritrovata vitalità. A tratti persino eccessiva nella sua voglia di piacere a tutti i costi.
19/02/2012