Non si può negare una certa diffidenza verso gli artisti “poliedrici”: qualche cortometraggio, una band come esperienza giovanile, l’avventura solista come ulteriore sfogo espressivo. Adam Stafford ha fatto tutto questo, raggiungendo un certo riconoscimento almeno nei primi casi. Qui si presenta col secondo disco a suo nome, in cui ancora sviluppa trame composite ma chiaramente improntate all’esecuzione in solitaria, nella quale eccelle, a quanto pare, tanto da meritarsi il soprannome di “The Slow Motion Preacher”.
“Imaginary Walls Collapse” – titolo tratto da una poesia di Ginsberg – si sviluppa così tra loop ossessivi, nel contempo glaciali e baldanzosi, di beatbox e chitarra, sulle quali Stafford imposta le sue melodie dal sapore occasionalmente bucolico (“Phased Return”), declinando addirittura nella filastrocca power-pop (“Carshulton Girls”).
Garage, blues, folk e pop sembrano unirsi, ma ciò che emerge in realtà è una monotonia di fondo purtroppo più che irritante (la title track, “Please”), fatta di soluzioni preconfezionate, dalla scrittura anche puerile.
Alla fine, qualche baracconata di effetti e loop da saltimbanco del palco (la tremenda “His Acres”) separa dal termine di un ascolto che si arriva a supplicare.
28/07/2013