“E’ questo quello che volevi/ vivere in un casa infestata dal fantasma/di te e di me?”.
La risposta a questa domanda, formulata tanti anni fa tra i solchi di un rugginoso vinile di Leonard Cohen, arriva oggi, sussurrata dalle labbra di Anna Calvi: “Sì, è proprio questo”.
Esorcizzare il dolore di una perdita, vincere finalmente la paura di un drastico cambiamento: per riuscire in quest’impresa è necessario sfidare i demoni, entrare un’ultima volta in quella dimora stregata. Lungo corridoi spettrali e camere separate, tra lenzuola ancora tiepide o al centro di immagini in cornice, un tempo familiari. "One Breath" è tutto questo, racconta secondo l’autrice “il momento precedente all’apertura di te stesso, e parla di quanto sia terrificante. E' spaventoso e al tempo stesso emozionante. Ma anche pieno di speranza, perché qualunque cosa debba succedere non è ancora successa". Che il sipario si alzi, dunque, che il viaggio abbia inizio.
Il secondo album di Anna Calvi bussa alla porta a due anni e mezzo dall’esordio: ci ritroviamo di fronte un’artista più matura, più consapevole, ormai padrona dei propri mezzi espressivi. Ma non sazia, al contrario: l’inquietudine creativa e la curiosità, sulle ali di una musica mai così passionale, viscerale, intensa, l’hanno scortata oltre ancora una volta, come del resto suggerisce il titolo di uno dei nuovi brani. Colori diversi impreziosiscono la tessitura degli arrangiamenti: gli archi lirici arrangiati da Fiona Brice, le tastiere e i suoni synthetici di John Baggot, già collaboratore dei Portishead. Ai due lati del palco, i complici di sempre: Daniel Maiden-Wood alla batteria e Mally Harpaz all’harmonium, percussioni e vibrafono. La silhouette angelica di Anna domina la scena: il suo canto epico, nostalgico, fragile e indomito è capace di esplodere e un attimo dopo restare solo un’eco flebile nel teatro vuoto. La regia del produttore artistico John Congleton (Joanna Newsom, Bill Callahan, Antony & The Johnsons) ha saputo portare per mano la cantautrice verso territori vergini, senza tuttavia smarrire la strada: come avrebbe fatto un David Lynch o un Tim Burton dietro la macchina da presa, ha tirato fuori il meglio dalla sua attrice protagonista e in appena cinque settimane di registrazioni – laddove il primo album aveva richiesto due anni e mezzo per essere realizzato – nel verde della campagna francese è nato “One Breath”.
Le novità appaiono gradualmente. Le prime due canzoni, “Suddenly” ed “Eliza”, quanto a mood sembrano quasi una coda del disco precedente, come se Anna avesse voluto farci accomodare su quella vecchia e comoda poltrona prima di esplorare meandri non illuminati: andamento marziale ed enfatico, batteria e chitarra elettrica, vocalizzi a riempire ritornelli poveri di testo. Fin qui nulla di nuovo. Al terzo episodio, “Piece By Piece” si comincia a cambiare registro: una lunga strofa sorretta da una figura fissa di batteria, zampillante suoni synthetici, rumori e aperture di tastiera, ora disturbanti ora idilliache: chissà, piacerebbe forse a Thom Yorke, di sicuro a una stravagante come St. Vincent. E al termine di una breve “Cry”, innervata da dinamiche consuete "rumore-quiete", ecco il primo autentico gioiello: “Sing To Me” è una ballata d’amore, di un calore freddo e lunare, sospesa su note placide di chitarra e basso; entra il piano e per alcuni magnifici istanti si vola su, in un crescendo d’archi che riprende la linea melodica del coro, che sale di intensità per poi sfumare ancora, sul bagnasciuga di una spiaggia segreta, deserta e sotterranea.
Fa da contraltare la furia elettrica di “Love Of My Life”: un rockaccio duro, arrugginito e psichedelico che, per la prima volta con una certa cognizione di causa, accomuna la Nostra a una PJ Harvey dei bei tempi. Il respiro straniante e certe immagini d’oltremondo sperimentate poco prima saranno ribadite nella title track, quasi a voler sottolineare l’importanza di questo tipo di suggestioni, più intime e impalpabili rispetto a quelle ascoltate all’inizio del disco e della carriera.
La sorprendente coda strumentale di “Carry Me Over”, con il canto che riprende il sopravvento prima della chiusura, sintetizza alla perfezione il nuovo corso stilistico vissuto e interpretato da Anna Calvi: tastiere e vibrafono, archi e chitarra elettrica quindi una voce, la sua voce. Che riesce a salire e scendere incredibili vette emotive con la stessa confidenza di una performer consumata restituendo, al tempo stesso, tutto il pathos di una giovane che ha la meglio sui suoi incubi.
Gli ultimi due brani sono un’ulteriore discesa nella tormentata psiche di Anna: l’avvolgente “Bleed Into Me”, lettera d’amore e insieme preghiera laica, ritrova per miracolo la Grazia sepolta di Jeff Buckley; “The Bridge” asciuga questa e ogni altra lacrima rialzandosi in funerea processione.
In scena ormai resta solo il coro e la voce di Anna, mai così nuda e vulnerabile, mai così altrove. Come Orfeo, anche lei si guarderà indietro, per un’ultima volta. Dai suoi occhi è come se potessimo scorgere il bianco dei fantasmi che aleggiano intorno alla cattedrale. Ma è solo un momento, perché quel ponte da una porticina dietro l’altare scorterà noi e lei in salvo, alla fine del sogno. Di quelle immagini non resterà che un’eco, languida e inquietante.
06/10/2013