I torinesi Did si sono imposti creativamente con “Kumar Solarium” nella tarda parte dell’esplosione del punk-funk italico e non. Il secondo “Bad Boys” sembra riprendere dove il disco predecessore terminava (la quasi-ballad “Babe Precious Thing”), ma l’insieme - in confronto a quel delirio di groove - sembra una ritrattazione calma e acustica.
Apici di questa transizione sono infatti i soul elettronici di “Coin Slot” e “All We Desire Slightly Happens” (con le tastiere in bella evidenza), quindi “Belong To You” e i suoi effetti soffici ne sono una traduzione Prince-esca, mentre un vocoder Daft Punk cerca di soccorrere la pochezza di arrangiamento in “Mastroianni Keep It Real” e l’ancor più à-la modè “MVP”.
Pure significativa, nel bene e nel male, è “Second Chance”, che dapprima rubacchia i tocchi techno riverberati degli Underworld di “Born Slippy”, poi diventa una cantata estatica per castrato medievale, che da sola filtra e fa implodere il loro armamentario tribale-industriale di anni prima. Così per i sovratoni carioca di “You Read Me”, in cui la danza vera e propria si accende solo verso la fine, ed è un tipico caso di “troppo poco troppo tardi”.
Amatoriale e modaiolo, incline alla retorica più esteriore del pop edonistico: finita la sbornia wave, il complesso si rimette alla pacatezza del neo-neo-r’n’b bianco a suon di maniera e macchiette. Non una grande scelta se il punto di vista è quello delle idee dirompenti. Anche la forma lascia a desiderare, specie il canto - che nel debutto variava spontaneamente e sottilmente - appiattito e reso infastidente dall’abuso di filtri elettronici. Un paio di “Interludes”, ma in realtà tutti i brani, se non riempitivi, sembrano interludi. Videoclip dal gusto vintage per “You Read Me”.
20/12/2013