Prova brillantemente superata: rispetto all'ammaliante “Many Places”, esordio che sposava timbriche dubstep, vaghi richiami pop e una caldissima anima cantautorale, la dimenticanza della messicana effettua una deviazione di sensibilità e proposta significativa, svelandosi opera di elevato tenore lirico, fortunatamente distante da facili patetismi di sorta.
La progressione dei brani ha infatti un passo felpato, non indugia in sperperi emotivi: pur senza rinnegare totalmente i suoi trascorsi sintetici (evidenti specialmente nei battiti al rallentatore di “Last Place”), usati però con assoluta parsimonia e ben di rado come supporto primario alle vibranti e meditabonde interpretazioni dell'autrice, gran parte del lavoro si impernia sui fitti e intensi dialoghi tra la voce (che fa più ampio ricorso alla lingua madre) e il pianoforte, sfruttato essenzialmente nelle sue potenzialità poetico-descrittive.
Commosse e commoventi, sfilano quindi con eleganza accorata ballate dal tocco jazzato, prossime a quelle di un'Azita insospettabilmente romantica (“Dicen”), lenti alla soglia di un dramma irrimediabile (la title-track, le cadenze in odor di trip-hop di “Flowers From My Silent Death”), quadretti in cui infine la tensione si allenta, ma la cui scrittura aggiunge ulteriori tasselli al mosaico espressivo della musicista, che si tratti di remote sfumature latine (“Desde La Nada”, “Azul”) oppure di passaggi da moderna cantautrice folk (“From Others”), che prova a sorpassare perdite e abbandoni in un dialogo sincero col passato.
Incisivo e avvincente, l' “Olvido” di Graciela Maria è in definitiva un piccolo scongiuro che non si esita a far nostro, nella speranza di riallacciare le fila con un le memorie di una vita intera lasciate scorrere via con troppa leggerezza.
(22/06/2013)