Paesaggi che mai come in “In Focus?” sembrano essere stati immortalati al momento del massimo rigoglio, con quell'occhio sbalordito, e allo stesso tempo capriccioso, tipico dei bambini. Anche perché in fondo, un po' bambino lo è sempre stato il cantautore di Tokyo, tra i rari musicisti (perlopiù giapponesi) a possedere il dono di saper ancora raccontare l'infanzia senza spargervi sopra dense colate di nostalgia, con quella capacità di vedere in uno scarabocchio maldestro la forma più pura e incondizionata dell'espressività umana.
E di scarabocchi, almeno ad un ascolto iniziale, verrebbe da parlare in merito ai nuovi brani del favolista nipponico: scarabocchi giocosi, variopinti, un viaggio nelle trame fantastiche e ingarbugliate di quel diario dei sogni, in cui il Nostro annota con passione e dedizione ogni sua visione, ma pur sempre scarabocchi. E' sufficiente un tuffo più convinto nel lavoro a smentire comunque le prime fugaci impressioni. Laddove si fiuta dapprincipio un affastellamento continuo di mille strumenti diversi (per quanto compaiano diversi momenti ben più essenziali, in cui il polistrumentista si rimette alle sei corde di nylon e a qualche elemento percussivo), si osserva invece una formidabile mano da arrangiatore, dotata della perizia necessaria per rendere scorrevoli e agili le virtuose maglie strumentali.
Accanto a ciò anche la scrittura, smarritasi talora in passato nella fitta nebbia dell'intimismo da cameretta (fatto che ha appena appena inficiato un comunque interessante “Port Entropy”), qui riluce di un vigore ritrovato, con una lucidità che sa tener testa alla dovizia dei particolari sonori. Fanfare ritmatissime rette su sincopi quasi hip-hop giocano quindi di contrasto con linee melodiche rasserenate, al confine con l'incanto (“Katachi”); pregevoli saggi di samba sbilenco alla Tom Zé rendono merito alla cadenza sillabica della lingua giapponese, utilizzata come se fosse un altro strumento a disposizione di Tokumaru (“Poker”); amene filastrocche sorrette da fantasiose linee di basso e frizzanti parentesi di zufolo (“Shirase”): sono queste alcune tra le tante soluzioni che consentono al Nostro di mettere in musica le sue vivaci fantasie notturne, sviluppate attraverso un percorso dai tratti cinematici, fortemente narrativi.
Brevi stacchi strumentali (notevole l'impiego delle scale cromatiche in “Micro Guitar Music”, divertente la piega cartoonesca di “Pah-paka”, che incrocia l'iridescente psichedelia di Dan Deacon), un'introduzione che già da sola getta una discreta luce su quanto segue (la qualità fahey-ana del picking in “Circle”, puntellata da un didgeridoo serpeggiante e una cascata di note di tastiera), il succedersi di motivi briosi a romantiche ninne nanne in odor di ballad (la placidità folk di “Tightrope”, “Ord Gate” e lo stupendo climax emotivo): tutto parla del carattere fortemente “romanzato” del lavoro, i suoi brani ipotetici capitoli in cui vengono illustrate le varie esperienze oniriche.
E basta quel timbro sottile, il tono vago e carezzevole della voce, a tratteggiare meglio di qualsiasi (abusata) rarefazione atmosferica o di una coltre di feedback le deliziose avventure vissute in questa suggestiva dimensione parallela. Una voce piana, controllata negli sforzi, eppure capace di tener testa, di far ruotare attorno a sé, le impalcature di questi spumeggianti carillon dell'inconscio: d'altronde, il sonno sereno dei bimbi sa essere quanto di più sfaccettato e caleidoscopico possa esistere al mondo.
(21/01/2013)