Dopo un paio di cambi di formazione si è giunti a questo primo lavoro e, non a caso, la produzione è stata affidata a Ed Buller, già collaboratore di Pulp e Suede, il quale ha firmato recentemente il ritorno di questi ultimi con il riuscito “Bloodsports”.
Una volta espresse così chiaramente certe coordinate, sarebbe quasi superfluo parlare di toni ruvidi, chitarre distorte, code tendenti alla psichedelia. Di come “The Big Blue” ci riporti alla mente i migliori Inspiral Carpets e di come lo spettro degli Stone Roses aleggi ovunque, dalla prima all’ultima traccia. Nulla di quell’immaginario manca all’appello, caschetti à-la Tim Burgess inclusi; c’è però di più in questo esordio dei Sulk, qualcosa che va al di là della mera imitazione: c’è una band ben consapevole di ciò che sta realizzando e abile nell’evitare di sprofondare fra le sabbie mobili del revivalismo senza inventiva.
Facile dunque lasciarsi affascinare dalle trame chitarristiche di “Diamonds In Ashes” o dall’imponente e funzionale sezione ritmica, batteria costantemente upbeat e basso pulsante (“Marian Shrine”); proprio le chitarre di Needle e Kubowicz sono le vere protagoniste di “Graceless”, sempre in primo piano e capaci di continui e ispirati intrecci, dirette all’occorrenza, ma altrettanto pronte nell’assecondare le derive psych.
Se gli Stone Roses avessero fatto uscire un disco di questo tipo nel 1994, ora se ne starebbe parlando come di un classico; diciannove anni dopo il giudizio non può essere, per forza di cose, lo stesso, ma i cultori del genere e i nostalgici del periodo aureo del britpop potrebbo sicuramente trovare in “Graceless” il loro personale disco dell’anno.
I Sulk dimostrano che l’originalità ad ogni costo non è così indispensabile, a patto che le influenze siano ben assimilate e rigettate fuori sotto forma di buone canzoni: quelle sì, sono davvero indispensabili e non stancano mai.
(03/07/2013)