Il sole, si sa, è una comparsa piuttosto rara dalle parti di Edimburgo. Le pulsioni di vita e di bellezza sono condannate fisiologicamente a tramutarsi in anelito malinconico e nostalgia senza fondo. In maniera simile, il lungo catalogo elettronico (e dintorni) che ha avuto la sua genesi tra le lande a nord d'Albione ci ha abituato in lunghi anni di inconsapevole riflesso a una situazione geneticamente condizionata, con i Boards Of Canada quale esempio supremo e popolarmente riconosciuto. Duemilaquattordici, così, la storia si ripete senza pietà. Protagonista il duo Dalhous.
Dissipato lo storico velo di mistero che avvolgeva il marchio fin dagli esordi, usciti allo scoperto con interviste e pubblicazioni più regolari, Marc Dall e Alex Ander si ripresentano a poco più di un anno dall'ottimo debutto su album "An Ambassador For Laing" e a pochi mesi dal più hypato Ep "Visibility Is A Trap" con suono e intenzioni sensibilmente mutati.
L'incontenuta ma intima solarità della frizzante opera prima ha finito per annebbiarsi in un cielo scolorito e nuvole in addensamento all'orizzonte. I Dalhous si ritrovano così a passare in rassegna memorie, ferite e desideri per mezzo di vignette eniane astratte e sfuggenti, come suggestioni svanite prima di essere ancora codificate, come nuvole fluttuanti in un cielo estivo alquanto inclemente.
Le quindici tracce scorrono così come impressioni fugaci e sfocate, eppure altamente compresse di stratificazioni e stimoli: quella dei Dalhous è ambient music comunicativa, alla maniera dei primi Autechre, di certo Sasu Ripatti e di vari teutonismi d'annata, si agita nervosa tra sample vilipesi, increspature droniche e beat a sorpresa, mal prestandosi al semplice ruolo di sfondo chill-out.
Indubbio, quindi, il fascino per il vintage elettronico, dagli effluvi gusto mandarino e colonia francese fino alla selezionatissima scelta dei visual, in cui vengono alternate bucoliche immagini retrò con documentari psichiatrici (la figura di Laing è ricorrente non a caso), il tutto con tocco elegante e personale, con i piedi nel presente e senza scadere mai negli scimmiottamenti di sorta.
Non lasciatevi trarre in inganno, quindi, dal cupo richiamo del nome Blackest Ever Black: quella dei Dalhous è musica emotiva e discorsiva, che si inserisce ultima in ordine temporale nella tradizione elettronica votata all'umanesimo piuttosto che all'effetto e all'atmosfera. Come tale, "Will To Be Well" non sarà probabilmente un album per tutti, ma per i tanti che dall'elettronica richiedono dinamica, sentimento, contraddizione e spunti aperti. Oltre che sentirsi bene, molto bene.
15/07/2014