Punta tutto sull’interpretazione e sull’"emozione", il secondo disco della band di Chris Porterfield, fuoriuscito della band di Bon Iver e suo meno ispirato emulo, comunque la si voglia pensare sulla seconda parte di carriera del Sommo Barbuto.
“Marigolden” raccoglie ancora, a partire dall’iniziale “Decision Day”, il pensiero debole di una scrittura derivativa (lo Springsteen depresso di “Pale Rider”), con canzoni arrangiate con un prevedibile, spoglio minimalismo, tra soluzioni tradizionali (l’immancabile slide) e più vezzose (percussioni, vaghi spunti elettronici).
Porterfield si difende comunque molto bene soprattutto sul piano dell’esecuzione, con ballate arrangiate con gusto retrò come “Summons” (un Phosphorescent negli anni 80) e più spiazzanti digressioni radiofoniche (“Home (Leave The Lights On)”) ed elettroniche (“Wings”).
Una certa vena da stazione alt-country notturna percorre in effetti “Marigolden”, nel bene e nel male, intrappolandolo nella scenografia posticcia di un viaggio alla deriva su un vecchio macchinone spedito a tutta velocità nel deserto.
Diventa così inevitabile anche la torch song al pianoforte di “Ambrosia”, e alla fine risalta ancora di più la natura “sentita” del disco, che si riflette tanto nell’ingenuità della sostanza quanto nell’elaborazione successiva del suo immaginario di suggestioni.
13/11/2014