"Le tecniche musicali ripetitive compromettono l'attività razionale, trasportano l'ascoltatore in una dimensione dove lo spazio e il tempo perdono qualsiasi significato, un sempre presente atemporale.'
(Raffaele Serra)
Qualche settimana fa si parlava da queste parti della poliedricità collaborativa che ha permesso ad
Alio Die di tenere l'oblio creativo sempre a debita distanza dal suo
soundworld. Se il panteismo ambientale inaugurato con
Antonio Testa, il cammino interiore condiviso con Aglaia e le meditazioni elaborate con Zeit sono i frutti più brillanti e pregnanti di questo “fenomeno”, il progetto Five Thousand Spirit è forse quello più emblematico. Un ponte, forse l'ultimo, che lega Alio Die a quell'infatuazione industrial da cui tutto è iniziato, costruito assieme a un vate dell'
underground elettronico nostrano come Raffaele Serra. Un artista senza confini, che ha studiato e affrontato di persona tutte le tendenze sperimentali del secolo scorso, dal
post-kraut di fine Settanta all'industrial fino all'
ecoacustica acusmantica e al paesaggismo sonoro in forma di
field recordings.
Interpretare le direttrici che questo percorso collaborativo ha affrontato negli anni è impresa assai ardua, pieno com'è di colpi di coda ed evasioni spontanee da qualsiasi inquadramento. Di sicuro, però, questo “Melchaziek” - settimo album in quasi vent'anni – va a evolverne i connotati più terreni, scarnificando la miscela sonora dalle sue componenti ambientali ed esoteriche, puntando dritto senza mezze misure verso un crudo e affascinante naturalismo percettivo. Come in quella corrente della letteratura francese di fine Ottocento che reagì esaltando le prospettive del progresso e scagliandosi contemporaneamente contro le sue implacabili conseguenze sociali, qui i due musicisti mostrano i due volti della contaminazione umana sulla natura. E lo fanno, anziché descrivendo scenari e visioni, rendendo di esse un'impressione, sfruttando i suoni come elementi generatori di sensazioni, eliminando dunque il passaggio di elaborazione dall'immagine all'idea.
Si spiega così il ricorso a
field recordings inusuali come le mosche ronzanti che aprono l'apocalisse industriale di “Innerverse”, su cui si fa sentire forte e chiara la lezione psicoacustica di Rudolf Eber. Sembra davvero che l'occhio dei due si concentri, per una volta, sui tratti più scomodi di quello stesso mondo che Alio Die ha dipinto nelle sue forme più evocative e sublimi, e sulle cui potenzialità soniche Serra ha centrato buona parte delle sue ricerche più recenti. Quest'occhio vigile e quasi critico si afferma pure nell'immersione angosciosa di “Uhura's Song” e nell'inquietudine svuotata di “Magnetic Mirror”, nonché in parte nel mantra
chill-dark di “Siege Of The Unseen”, che simula un incontro ravvicinato tra l'ultimo
Hector Zazou e il
Sakamoto più criptico. Malgrado l'ossimoro del titolo, “Dark Interlude” sembra mostrare un filo di luce nel suo sciame ronzante di droni, mosso com'è dal puntuale incedere del ritmo.
Nonostante questi binari siano seguiti per circa cinquanta minuti, i due sigilli conclusivi inscenano un paradosso cercato. “Islands In The Sky” omaggia senza mezzi termini il
Robert Rich di “Geometry”, mentre il finale di “Iron Sunrise” è un gioiello di synth-pop strumentale che sorpassa a destra il più zuccheroso
Roedelius. Proprio in questo finale trova un senso a posteriori il mélange della
title track, nel suo oscillare perenne tra intermittenza luminosa e ombre opprimenti. Un'oscillazione che si rivela chiave di lettura del disco stesso, di questo ritratto del mondo umano e delle sue conseguenze, esteriori (sulla Natura) e interiori (sulla psiche e sui sentimenti). Viste con gli occhi del più grande pittore di scenari spirituali legati a doppio filo alla Natura che la musica ambient, italiana e non, ricordi.
31/01/2015