Può un lutto tramutarsi in una pacata e vibrante elegia? Può ogni forma di prevedibile (e legittimo) cordoglio essere trasfigurata al punto da sembrare del tutto irriconoscibile? Domande retoriche queste due: può, eccome se può. Siamo d'altronde più di sette miliardi di anime su questo pianeta, non è detto che tutti rispondano necessariamente agli stessi criteri di elaborazione della perdita e del dolore; Francis Harris può dire purtroppo di conoscere fin troppo bene certi sentimenti, e di averne subìto l'impatto con una rapidità che reca in sé davvero i segni della disgrazia. Perso il padre poco prima della concezione dell'eccellente “Leland”, primo coraggioso tentativo di aggiornare la house ai ritmi e alle esigenze del jazz, con la madre venuta a mancare poco dopo la sua uscita, il producer di stanza a New York ha visto arte e vita intricarsi in maniera sempre più frenetica, così tanto da diventare indistinguibili, l'una complemento esclusivo dell'altra. In questo clima di abbandono e riflessione, di slanci contrastanti e tensioni difformi, “Minutes Of Sleep”. Quasi a volerli cercare per davvero, quei minuti di sonno, quei momenti di oblio nei quali perdersi e sfuggire ai propri pensieri, al suo secondo lavoro sulla lunga, lunghissima distanza, Harris tratteggia un'opera emotivamente poderosa, un sortilegio appena proferito in cui la commemorazione diventa il mezzo per riscoprire un'inusitata leggerezza: impresa mica facile, a prescindere da com'è stato poi concepito il tutto.
La via prescelta dallo statunitense, almeno considerando i presupposti, sembrerebbe infatti portarlo verso l'esplorazione di paesaggi, di immaginari consueti a chi si trova ad affrontare la scomparsa, a gestirne il peso: e invece, è proprio nell'uso di certe dinamiche, nel ribaltare certe consuetudini d'approccio, che Harris mostra nuovamente tutta la sua grandezza di t(r)atto, l'intensità della propria arte. La scelta di procedere per sottrazione piuttosto che per sovrapposizione era già stata avviata con grande profitto due anni addietro, eppure, alla luce di questi lunghi, virtuosi momenti di quiete, “Leland” sembra ancora un lavoro davvero denso, finanche stratificato, a voler azzardare con i termini.
Pulsazioni e ritmi, in quest'occasione, assumono invece un ruolo decisamente meno fattivo rispetto al passato recente, sono un mezzo tra i tanti possibili per consentire a Francis di arrivare al punto. Basta soltanto avviare “Hems”, e rendersi conto che quel basso appena pronunciato poco può invece contro un violoncello e increspature drone, contro dinamiche che più devono al jazz che all'elettronica tout-court. E che, proseguendo lungo la tracklist, un episodio come “You Can Always Leave” (un po' destabilizzante realizzare che quelle parole, apparentemente così innocue, si rivolgono al giorno in cui sua madre venne a mancare), brillante esemplare di micro-house da far invidia alle estese dissertazioni di genere di un certo Sasu Ripatti, accoppiato al lounge mesmerico di “Me To Drift” (quel che succederebbe se Deniz Kurtel si riscoprisse meno convulsa e malata rispetto ai suoi standard), difficilmente potranno rappresentare il fulcro della serata, con quelle aperture a un rilassamento chill-out che parlano più al popolo dell'after-party.
E di fatto, di essere al centro dell'attenzione a Harris interessa ben poco, non è di certo a coinvolgere le grandi platee che punta il suo operato. Anzi, è proprio difficile che dopo le nebbie droniche in scia Tim Hecker di “Dangerdream” (remixata per l'occasione in una misteriosa chiave politica da uno scatenato Terre Thaemlitz; sentire come riesce a tenere con il fiato sospeso per quattordici minuti grazie a un click che entra sottopelle e non molla più la presa) o la “fuga” downtempo di “Lean Back” non procureranno l'evasione del clubber medio. Piuttosto, serviranno a chi invece aspira, anche solo un po', all'annullamento delle proprie turbe, a ricercare un'oasi di serenità nel proprio malessere, una minima tracciatura ritmica a porre un riparo dalla frenesia circostante.
Questione mentale, insomma, più che fisica, e il coinvolgimento diventa massimo in questo senso: dotato di un notevole fiuto compositivo, esperto nel saper gestire e dilatare i tempi senza un filo di grasso di troppo, il producer dà in pasto agli ascoltatori “food for thought” di grande respiro, in cui la manipolazione di sorgenti organiche (materiale d'elezione), sovrapposta a esili pattern elettronici, riesce nell'intento di riciclarsi come incisiva ambient-music, quale raramente se ne sente negli ultimi tempi. La house più esile e pacata trova così nuova linfa vitale nelle spirali rarefatte della brumosa “Blues News”, mentre le nuance atmosferiche di “New Rain”, più che nella costruzione, vengono fuori dall'accuratezza della messa in atto, sensibile alla minima variazione di ritmo o di tono.
Nell'impresa di riuscire a catalizzare per la seconda volta il proprio dolore, Harris ha finito in definitiva con l'andare ben oltre un semplice tentativo di esorcizzazione: nella (ri)scoperta di una tranquillità emozionale agognata nel profondo, nella corresponsione finalmente raggiunta tra serenità esteriore e interiore, quello a cui si approda è un lavoro capace di estendere la visuale da una commossa soggettiva a un confronto a cuore aperto verso il proprio pubblico. Mai minuti di sonno sono apparsi così confortanti.
08/04/2014