1965. Un Syd Barrett non ancora ventenne se ne va in giro per una cava nei dintorni di Cambridge arrampicandosi su una parete di gesso e correndo senza meta nel sottobosco, mentre un amico della scuola d'arte documenta il suo viaggio psichedelico con una videocamera amatoriale. Al di là del valore più o meno simbolico che questo (ennesimo) aneddoto su Testamatta portava con sé, mi sono sempre chiesto da dove provenissero le sonorità aliene e rarefatte che accompagnavano il suddetto filmato.
Ho pensato che quella melodia lontana fosse semplicemente perfetta, che rappresentasse nel modo più giusto l’aura dreamy e ultraterrena che si percepiva in quella particolare situazione, proprio mentre io osservavo il ragazzo che in seguito sarebbe diventato il pifferaio alle porte dell'alba in contatto diretto con la sua anima e con il mondo circostante.
Qualcuno si starà probabilmente chiedendo il perché di questa mia nostalgica e apparentemente scollegata introduzione. Ebbene, vi sembrerà assurdo ma il primo approccio con “High Dreams” dei Japanese Gum mi ha riportato istantaneamente a quel momento, a quelle immagini, a quei suoni che ascoltai qualche anno prima e che tanto mi emozionarono. Un album che va al di là delle semplicistiche descrizioni “bello-brutto”, che va vissuto, capito e respirato nella sua vera essenza, in cui nell'esperienza dell'ascolto non è importante dove sei ma in che stato mentale sei.
Loro si chiamano Japanese Gum, duo genovese nato nel 2005 e composto da Davide Cedolin e Paolo Tortora, a cui si unisce Giulio Fonseca (mente del progetto Go Dugong) per i live. Dopo una partecipazione all’edizione 2012 del SXSW e dopo l’uscita del primo album “Hey Folks! Nevermind, We Are Falling Down” nel 2009, la “gomma giapponese” sforna “High Dreams”, completamente autoprodotto e già da qualche settimana disponibile nella versione digitale (il 24 febbraio uscirà in vinile per Etch Wear Records).
Una musica di respiro internazionale, a tratti abbagliante nel suo splendore e quasi incapace di restare ingabbiata nella canonica forma-canzone, che fin dagli appiccicosi loop elettronici del formidabile pezzo di apertura “Fine Again” conduce per mano l’ascoltatore in un luogo mentale lontano e sconosciuto ancorché rassicurante, dove la materia è fluida e lo spazio e il tempo cessano di esistere. La psichedelia nebulosa e trasognata à-la Atlas Sound di “Comfy” ci accompagna ai chitarroni shoegaze di “Foam made floor”, forse la stella più luminosa di tutte insieme al singolo “Homesick”.
Alla base c’è sempre la scelta di un cantato distante, annacquato e rarefatto (che, almeno riguardo alla ricerca dell’armonia melodica, presenta alcune analogie con sua maestà Panda Bear) all’interno di uno scenario in cui le escursioni cosmiche vengono tratteggiate da un perfetto utilizzo dell’elettronica in ogni suo piccolo dettaglio. Vanno appunto in questo senso gli echi, i delay e i riverberi alieni di “Hi Dreams” che fanno da preludio alle sventagliate di synth della solenne “Ignored” e agli universi distorti di “How To Sleep Well”, un vero e proprio viaggio nello spazio a milioni di anni luce dal globo terraqueo. Un trip che trova la sua perfetta conclusione in “Waterfall”, in cui la navicella dei Japanese Gum termina il suo viaggio senza che quasi ci si accorga di essere tornati a casa.
Insomma, qui stiamo parlando di un disco veramente importante, bellissimo e “vero” anche nelle sue imperfezioni. Un album ipnotico e ambizioso, che vuole scardinare le porte della percezione, in cui bisogna semplicemente chiudere gli occhi, tuffarsi e nuotare a fondo. Proprio come faceva Syd, nei suoi lisergici e altissimi sogni.
29/01/2014