Solo pochi artisti possono trasformare ogni loro atto creativo in un evento: Bob Dylan, David Bowie, i Radiohead, o Steven Patrick Morrissey non sembrano procedere con lo stesso passo di altri protagonisti dell’ammucchiata discografica dell’era digitale. Che deludano o che appassionino, i loro album aprono le porte a schiere di discussioni e opinioni che tentano, spesso in malo modo, di superare in intelligenza e profondità l’opera stessa.
Dalla fine dell’avventura Smiths è quasi ironico, nonché sintomatico, che lo sport preferito dei giornalisti sia quello di scommettere sulla loro riunione, nel tentativo di esorcizzare l’angoscia che li assale ogni qualvolta debbano affrontare l’ennesimo album di Morrissey (oddio, quale punizione divina!).
Cinque anni di pausa non hanno impedito il solito vociare contro, che fa seguito alle sue opere, sembra che nessuno voglia perdonare al musicista inglese quella lucidità con la quale ha demolito le sicurezze della musica rock, ovvero i granitici assoli, i testi politici privi di riferimenti personali, le certezze sessuali, le gratificazioni per il pubblico, o il misticismo esoterico: cinque elementi che non troverete mai in un album di Steven Patrick Morrissey.
Tour annullati, dichiarazioni mordaci e scontri a viso aperto con colleghi (Paws, We Are Scientists, tra gli altri) e società civile hanno buttato fuoco su un rapporto di amore-odio che non sembra destinato a scemare, certamente aver paragonato chi si nutre di carne a un pedofilo o a un criminale nazista non deve aver aiutato molto il suo rapporto con il pubblico, eppure “Meat Is Murder” non era solo il titolo di un album degli Smiths, ma anche il manifesto di scelte e opinioni che vanno almeno rispettate nella loro coerenza.
L’anticonformismo ha sempre caratterizzato le liriche visionarie di Moz, i toni forti e audaci contro l’Inghilterra della Thatcher e della Regina Elisabetta, le continue accuse contro i presidenti americani e la sua battaglia ad oltranza contro l’uso di carne sono solo un aspetto di una figura complessa e culturalmente forte e dinamica, d’altronde Morrissey non ha fondato un'ordine clericale che impone ai suoi fan delle regole, non ho ricordo di persone che andassero in giro a impiccare i disc jockey dopo la pubblicazione di “Panic" (come nessuno vi obbliga a diventare vegetariani prima di ascoltare un suo disco).
“World Peace Is None Of Your Business” è comunque l’album che annuncia l’ingresso di Morrissey tra i grandi vecchi, è il suo “The Big Chill”, ovvero un'amara riflessione sulla sconfitta della libertà più che sulla perdita delle illusioni; quelle sono solo cambiate e sono sempre più legate a una società che si crogiola nelle sue vacuità, che sia l’inutilità del Live Aid o il “terribile” matrimonio di William e Kate (colpevole, secondo il musicista, di aver offuscato sui media la notizia sulla morte di Polystyrene).
Qualche critico autorevole ha invitato Moz a guardarsi nello specchio piuttosto che invitare gli altri a farlo, dimenticando che l’autore sfugge alle regole del business che hanno ridotto suoi colleghi a icone intoccabili e ormai patetiche, la sua autarchia intellettuale resta stimolante, nonostante le inevitabili accuse di poca empatia dell’uomo Morrissey.
L’agghiacciante attualità della title track non deve far pensare che Morrissey abbia per la prima volta scelto un discorso politico più diretto, storie e immagini sono metafore della sopraffazione del potere: il suicidio della giovane studentessa incapace di soddisfare le attese dei genitori in “Staircase At The University”, il fascino ambiguo del crimine in “Mountjoy”, il sarcastico affondo contro la mascolinità in “I’m Not A Man”, la brutalità dell’uomo contro gli animali in “The Bullfighter Dies”, lo sfruttamento del lavoro nella opprimente “Kick The Bride Down The Aisle”, il rapporto conflittuale tra padre e figlio in “Istanbul” e la malinconica chiosa finale di “Oboe Concerto” mettono in atto una delle rappresentazioni più vivide dell’artista, l’individuo e la sua dignità diventano il fulcro di una visione politica molto più elevata della contrapposizione ideologica.
Ancor più interessante, questa volta, è la veste sonora che incornicia il tutto. Morrissey lascia spazi più ampi ai suoi musicisti ed esplora variegate fonti di contaminazioni che vanno dal tex mex ai paesi arabi, anche se tra i landscape noise misto a flamenco di “Neal Cassady Drops Dead” e le trombe mariachi di “Kiss Me A Lot” (un titolo che volontariamente traduce il classico “Besame Mucho”) si nascondono le tentazioni più hard-rock della sua carriera.
Per la prima volta il musicista gioca con il suo passato, affonda le mani nel britpop in “Staircase At The University” consegnando il riff a un malinconico oboe, e ci regala un prezioso gioiellino acustico (“Mountjoy”) che si incastra istantaneamente nella lista dei suoi classici, ma è il continuo e vorticoso cambio di registro e di lirismo etnico (ritmi latini, fisarmoniche in stile francese, atmosfere spagnole) di “Earth Is The Loneliest Planet” il manifesto più esplicito dello stile attuale del Moz, un groove dove tutti gli elementi pop della sua carriera diventano il tessuto dove dar spazio a melodie più mature e coese di un tempo.
Non mi sorprenderei se anche i detrattori degli Smiths trovassero in queste pagine più di un motivo per rivalutare il musicista Morrissey, è difficile restare indifferenti alle leggere tentazioni prog della lunga “I’m Not A Man” o all’energico incedere delle chitarre di “Istanbul” (quasi una novella “How Soon Is Now”), o al noir da crooner della magica e quasi macabra “Smiler With Knife” (non la troverei fuori luogo in un album di Scott Walker).
Il decimo capitolo solista non è un semplice affair discografico, ma una testimonanzia vivida e potente di uno dei più lucidi autori del nostro tempo. Non avete mai ascoltato un Morrissey così raffinato e intenso dai tempi di “Everyday Is Like Sunday” come nella malinconica “Kick The Bride Down The Aisle”, o romantico e sereno come nella conclusiva “Oboe Concerto”, anche se qualcuno intravede in queste tracce la fine dell’era post Smiths per un poco piacevole ingresso nell’auto-parodia o nell’autocompiacimento.
“World Peace Is None Of Your Business” è un album il cui fascino cresce a ogni ascolto, e questa è una prerogativa che difficilmente si poteva riscontrare nei suoi ultimi quattro o cinque album, lo stato di grazia è certificato anche dalle ottime bonus track della edizione deluxe, il beat ingenuo e giovanile di “Forgive Someone”, il melodrammatico lirismo di “Scandinavia” e il bizzarro mix di “Art-Hounds” sono un altro tangibile segno di vitalità per un artista pronto a riconquistare quella centralità culturale che spetta ai poeti del malessere della nostra era.
25/07/2014