Ricordare un grande genio del rock come Captain Beefheart è sempre un onere un po' imbarazzante, nel senso che è facile scadere nella retorica o in facili e scontati elogi. Non si può però tralasciare una ristampa come quella di "Lick My Decals Off, Baby", quarto Lp di Captain Beefheart e della sua Magic Band, che mancava dagli scaffali dei negozi di dischi dal lontano 1991 (ci fu solo una ristampa molto limitata nell'unico formato in vinile nel 2000).
In realtà, la Rhino già ristampò i dischi del Capitano del periodo 1970-1972 nel cofanetto "Sun Zoom Spark", uscito nel novembre dello scorso anno. Ora, la Warner Music ha immesso separatamente sul mercato gli album "Lick My Decals Off", il più normalizzato "The Spotlight Kid" (Reprise, 1972) e il meno interessante "Clear Spot" (Reprise, 1972), esattamente come la stessa compagnia discografica ha fatto di recente con i primi cinque album di David Bowie.
"Lick My Decals Off, Baby" uscì nel 1970 per la Straight di Frank Zappa in accordo con la Reprise e porta il grande fardello dell'eredità del capolavoro massimo "Trout Mask Replica" (Straight/Reprise, 1969), una vetta artistica che vanta pochi eguali in tutta la storia del rock (per alcuni critici, è un disco che ha la stessa statura di un film come "Citizen Kane" di Orson Welles per il cinema). Frank Zappa fu anche il produttore di "Trout", ma due geni di tale portata (lui e Don Van Vliet) non potevano andare sempre d'amore e d'accordo e, infatti, durante la registrazione di quel doppio album, i due litigarono spesso come galli in un pollaio.
Captain Beefheart si autoprodusse per "Lick My Decals Off, Baby", avendo così piena autonomia di mezzi (anche se, per ragioni puramente contrattuali, il disco uscì per la Straight). Sorprendentemente, però, la musica si era fatta molto più accessibile che nel precedente album, anche se lontana anni luce da tutti gli stili rock che andavano per la maggiore in quel periodo. Si può infatti considerare quest'album come il primo tassello del secondo periodo artistico di Don Van Vliet, quello che si distaccò in parte dalla folle e geniale anarchia dei primi lavori per approdare a uno stile maggiormente codificabile (ma mai accondiscendente o "popular", ad eccezion fatta per i suoi primi due album per la Virgin, che non sembrano infatti dischi suoi).
Per il Capitano, il blues arcaico era solo un punto di partenza per approdare a ben altri lidi. Basti infatti ascoltare la title track e "Doctor Dark", che sembrano anticipare di una decina di anni tutta la corrente no wave di New York, dai Contoritions ai Dna. "I Love You, You Big Dummy" è un indiavolato swamp-blues con tanto di armonica stridente, ma l'indole iconoclasta di Captain Beefheart non è domita nelle sgangherate quadriglie con tanto di mariba stonata di "Woe-Is-Uh-Me-Bop", "Petrified Forest" e "The Smithsonian Institute Blues (or the Big Dig)".
"Bellerin' Plain", "I Wanna Find a Woman" e "Space-Age Couple" continuano la saga intrapresa con "Trout Mask Replica". "One Red Rose That I Mean" è solo un breve intermezzo folk che viene sbilanciato da un anticipo di free-rock come in "Japan In A Dishpan", da cui Lol Coxhill attingerà più di un'idea. Il brano posto in coda al disco, "Flash Gordon's Ape", ci fa capire cosa sarebbe andato a fare Don Van Vliet in pieno periodo new wave, con il suo bellissimo album "Shiny Beast" (Virgin, 1978). Svariati artisti hanno dovuto pagare il loro dazio a questo disco, da Kevin Coyne ai Sun City Girls.
"Lick My Decals Off, Baby" detiene stranamente il primato di disco più venduto del catalogo di Captain Beefheart, sebbene si tratti di cifre comunque irrisorie se paragonate a quelle di altri famosi big del rock, compreso Frank Zappa. Il nuovo mastering di Dan Hersch rende finalmente giustizia a questo capolavoro (a tal proposito, la ristampa rimasterizzata del 2013 da Bob Ludwig su Zappa Records di "Trout Mask Replica" non è stata vista né ascoltata da nessuno).
Insieme a "Torch Of The Mystics" dei Sun City Girls (loro capolavoro del 1990 ripubblicato in questi giorni dalla Abduction, conservando la copertina originale) e alla bella ristampa rimasterizzata di "Astral Weeks" (Warner Bros, 1968/2015) di Van Morrison, questa è la riedizione discografica più importante del 2015.
La gloria postuma di Don Van Vliet (che, ricordiamolo, è morto il 17 dicembre 2010) lascia comunque riflettere e un bel po' di amaro in bocca, soprattutto se si pensa che lui stesso detestava il "music business" che gravitava nel rock e che si vantava di non saper leggere lo spartito e di non saper sunare bene alcuno strumento e, tantomeno, di saper cantare (non a caso, lui si guadagnò da vivere come apprezzato pittore). Ha sempre dichiarato di essere un istintivo, uno che buttava giù ciò che gli passava per la mente, senza preoccuparsi troppo del risultato o se ciò che registrava potesse piacere o meno alla massa di ascoltatori.
Ma, ancora una volta, è forse inutile spendere parole superflue per descrivere la sua arte. E' come voler spiegare in termini scientifici l'arte dei surrealisti, da Bunuel a Dalì fino a Ernst e a Mirò. Con molta probabilità, Van Vliet avrebbe visto di buon occhio tutte le nuove modalità per poter fruire la musica in download, senza intermediari e vincoli contrattuali.
"La musica è di tutti e non bisognerebbe pagarla per averla", amava spesso ripetere. Di artisti così, forse, ne nasce uno ogni cento anni.
16/11/2015